Parigi, città aperta (Parigi ci appartiene)

Lavorare sul proprio immaginario. Arrenderci a quest’idea – non ad altro. Allenarci al difficile compito di ricostruire, di capire, di mettere assieme i tasselli di una realtà più ampia

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Lavorare sull’immaginario. La storia ci insegna che è questo l’ambito sul quale vengono a disporsi le categorie essenziali dell’umanità.

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C’è un’idea magica che circola perversamente in questi momenti di tensione, paura, afflizione: ci candidiamo a cambiare le idee altrui, vogliamo disperatamente che cambino i desideri, le speranze e, ancora una volta, le paure di popolazioni intere, di masse d’individui che, come noi, cercano disperatamente, follemente, di cambiare il mondo (anche con le armi), secondo l’angosciante concetto che uccidere possa significare “far cambiare il mondo”, modificare quelli che sono i canali più segreti, nascosti, innominabili d’una realtà che ci domina, in qualunque modo.

Occhio per occhio, dente per dente. E’ l’idea arcaica, istintiva, capace di rispondere in modo primario a quelle che sono le deficienze di una realtà che desideriamo modificare e che non si fa, ovviamente, trasformare da questo tipo d’intervento. E’ quello che vogliono gli uomini dell’Is, è quello che vanno dicendo alcuni idioti delle nostre testate nazionali. Per loro, lo scontro deve rimanere su questo piano: fisico, immediato, massacratore, inutile.

E dell’inutilità della morte nessuno ne parla: rimaniamo attoniti (nel migliore dei casi) e, ovviamente, impauriti. Bestialmente, primitivamente impauriti. Non riusciamo a far altro che riconfermare l’istinto primordiale che ci spinge alla distruzione – siamo governati sotterraneamente da un istinto di morte che è l’unico a rassicurarci: se possiamo “dare” la morte significa che siamo, in qualche modo, capaci di governarla.

L’unico scontro/incontro possibile è, invece, sull’immaginario. Un immaginario talmente potente, lo ripeto, che è capace di creare mostruosità fisiche, tangibili, reali. Un immaginario altrui che magicamente pensiamo di poter cambiare in qualche modo – ricorrendo, ad esempio, all’omicidio. E la morte, inutile dirlo, non taglia fuori l’immaginario, tutt’altro: lo ingigantisce, gli permette di moltiplicarsi all’infinito.

Cosa è possibile fare?

Lavorare sul proprio immaginario. Arrenderci a quest’idea – non ad altro. Allenarci al difficile compito di ricostruire, di capire, di mettere assieme i tasselli di una realtà più ampia, tendenzialmente esterna all’orticello nel quale viviamo. Rimaniamo, invece, per lo più, lettori di derive, di frammenti. La realtà complessiva ci sfugge costantemente. Siamo vittime di algoritmi mentali che ci inducono a vedere indizi secondo quelle che sono le coordinate prestabilite dalla percezione che abbiamo della realtà. E questo è un dato irreversibile perché umano e naturale. Possiamo però riconoscerne la presenza, la fattura, le dinamiche interne. E possiamo utilizzare tali strategie sforzandoci di guardare in modo nuovo quelle che consideriamo farneticazioni estreme. E parlare di terrorismo non basta e può essere pericoloso.

Le parole hanno un che di fascista – lo diceva Barthes. Ma non è l’obbligare al silenzio che fa paura. Fa paura l’obbligare “a dire”. Le parole dicono sempre troppo. Si portano dentro – anche in questo caso, secondo un pensiero magico – il dono (fasullo) di poter gestire le cose, gli oggetti, gli uomini e, soprattutto, l’immaginario.

L’immaginario, invece, sta sempre lì, rimane inattaccabile – un oggetto misterioso che è difficile da penetrare, da gestire. Un oggetto che la psicanalisi riconosce solo nella sua complessità e che difficilmente riesce a smontare.

Questa guerra è qui che si gioca. E non è un caso se l’attacco di questi giovani si sia rivolto verso i luoghi della cultura e dell’arte: hanno riconosciuto nei teatri e nelle discoteche un luogo più primitivo rispetto a quell’idea di magico di cui parlavamo. Le vere chiese, quelle più ancestrali, quelle che mettono assieme l’immaginario originale con le pratiche del moderno, sono quelle: teatri, discoteche, cinema, stadi. Sono realtà ancestrali – i luoghi di culto reali, quelli che noi oggi riconosciamo, sono delle derivazioni tardive.

maxresdefaultGli assassini sono entrati nelle caverne di Lascaux e hanno appiccato il fuoco. Sono discesi nella parte più intima della nostra anima e del nostro immaginario per dirci che così, a loro, non va, non sta bene. L’hanno fatto nel modo più brutale, più ingiusto, più perverso. L’hanno fatto rispondendo a una necessità, a un desiderio magico di mettere le cose a posto, di pareggiare i conti, di annullare altre strategie dell’immaginario. Ovviamente senza riuscirci.

A noi resta, ora, questo compito, per nulla facile, di riconoscere che è nella stratificazione dell’immaginario la soluzione, soluzione ancora aperta, sicuramente non automatica, non immediata. Bisogna partire dall’immaginario, ma non da quello altrui. Bensì dal nostro: analizzarlo, chiarificarlo, definirlo nelle sue contraddizioni. Garantire al mondo, in qualche modo, che c’è un’area disponibile a guardare al di là del proprio orticello, capace e desiderosa di definire le strategie di un territorio  complesso, un avamposto disponibile a contare i morti di tutti, preparato a cancellare parole che impediscono all’immaginario, appunto, di spaziare, di prendere il largo, di avere il coraggio di parlare di uomini e di eventi senza dover necessariamente verbalizzare i nomi di stati, di sigle, di partiti e di fazioni.

Dietro alle parole ci sono i desideri, le necessità, le spinte emotive, gli obblighi imposti dall’anima. Su tutto domina la paura. La nostra e quella degli altri. Per cambiare le cose è solo questo il territorio d’un confronto possibile, l’area non pacificata che merita tutte le nostre attenzioni.

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