Per Ermanno Olmi

Un amico se ne è andato lasciandoci un’incredibile mappa per una vita che non siamo più in grado di capire ed affrontare. Ci mancherà. Ma proveremo a seguire la strada

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Grido parlando sottovoce, ma nessuno capisce.

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“Penso ancora a Ermanno Olmi che raccontava la Milano del 1983, una capitale della cultura, per smembrarne a poco a poco tutte le immagini istituzionali e restituircene altre più scomode, più caotiche, ma infinitamente più vere e più vitali. E oggi fa altrettanto, con la stessa ostinazione radicale, nascondendo appena il suo sguardo dietro l’immagine di repertorio. Vedete, sono uno di voi. E perciò abito qui, tra voi, immagino la città come il luogo di un rapporto reale, da costruire e riformulare ogni giorno. Per Olmi lo spazio ha sempre una sua nettezza, una sua evidenza, è fatto di segni tangibili, concreti come la Torre Velasca dei BBPR che si staglia, quasi minacciosa, nel fantastico Durante l’estate. Epperò su questa realtà materiale l’immaginazione compie sempre un lavoro di spiazzamento e riappropriazione, come la poesia del personaggio di Renato Paracchi che racconta un’altra città, disegna altri rapporti, sovverte i dati sociali sparigliando le classi, i meriti, i titoli di nobiltà assegnati finalmente secondo le virtù del cuore e gli incanti del desiderio”. Così scrivevo, solo pochi mesi fa, a proposito di civiltà perdute e di architetture radicali. E oggi che Ermanno Olmi non c’è più, mi sembra di un’evidenza ancor più disarmante il suo essere ancora qui, come un punto fermo, al centro di tutte le traiettorie che si diramano tra gli spazi e i tempi. Perché, nonostante la sua riservatezza e il suo pudore appartato, Olmi è sempre sul limite di trasformazione, lo registra nei mondi che cambiano, ma ancor più nelle persone, nei passaggi di età, nelle mille svolte che fanno impazzire i diagrammi delle vite, dalle cotte adolescenziali alle morti lievi e belle dei bevitori senza più speranza. E di conseguenza il suo cinema è in continuo cambiamento, è inclassificabile, imprendibile. Ha quella pacata sicurezza dei saggi che conoscono le grandi e piccole forme, ma si apre con lucidità e gioia alla “bassa frequenza” delle pratiche e dei formati più selvaggi, tra la Tv, il film aziendale, il documentario e la ricostruzione, il lavoro su commissione, l’archivio. In fondo Olmi è il primo, ancor prima di Rossellini, a girare “a qualsiasi costo” aprendo le porte al futuro, prossimo e remoto.

In questo 2018 avrebbe voluto – immagino – che si riparlasse de L’albero degli zoccoli e de La leggenda del Santo Bevitore, due anniversari fondamentali. E lì ritorneremo in maniera più approfondita, spero. Ma di certo, questi due titoli raccontano immediatamente l’infinita motilità del suo sguardo, che attraversa le campagne e le città, l’arcaico e il contemporaneo, la poesia del quotidiano e l’effettiva realtà della fiaba, il dolore della marginalità e quello della normalità, la comunione della fatica e la solitudine che pesa anche nella condivisione.

Olmi, forse, è la sintesi di tutte le possibilità. È un gigante che si firma con le minuscole. Un maestro e un ragazzino. È, probabilmente, il più giapponese dei registi occidentali. Non lo avevo capito, chiedo perdono. Perché sembra trovare il punto di contatto segreto tra la verticalità della fede “cattolica” e la circolarità di una visione orientale in cui tutto è connesso, dall’infinitesimale all’enorme, in cui il vento soffia su una realtà che si scopre effimera, eppur bellissima. Olmi scopre la trascendenza nell’immanenza del sacro. E custodisce, per questo, il senso profondo della materia, a cominciare dal culto della pratica, della messa in opera, qualsiasi essa sia. Per arrivare alla realtà della carne, con i suoi fremiti e le sue piaghe, i suoi desideri irrequieti e gioiosi, che salgono poi sempre agli astri e al mistero della contemplazione. È un illuminista e un mistico. Perché sa cogliere il senso esatto di quella frase di Diderot: “dall’elefante alla pulce, e dalla pulce alla molecola sensibile e vivente, che costituisce l’origine di ogni cosa, non c’è un punto in tutta la natura che non soffra o non goda”. E al centro di tutto, c’è l’uomo.

Sì, se proprio dovessi trovare un rimando, una sponda, mi verrebbe da citare Frank Capra. Non per questioni di stile, che non sono niente in fondo. Ma per quest’ostinazione all’ottimismo, la scelta morale radicale di aver ancora fede nell’uomo, ben oltre le ingenuità del partito preso e dei presupposti ideologici. Le persone, Aldo, le persone…. Le persone, lo so, hanno paura, si trincerano dietro l’illusione della tranquillità rinunciando al cuore, barattano la felicità per la sicurezza, si perdono dietro le illusioni, i fantasmi, la vanagloria. E rifiutano di riconoscere nell’altro lo specchio del proprio dolore. Ma anch’io sono una persona. Anch’io ho paura, rinuncio e mi perdo. Proprio come gli altri. Alla fine, sono le persone, tutte le persone, a condividere il senso e l’orizzonte della storia. Ecco. Chi si affanna a declinare il cinema di Olmi al passato, chi lo àncora alla civiltà contadina e ai mondi in via di sparizione, cerca solo di deviare il colpo, prova ad ammortizzare l’urgenza quasi insostenibile della sua visione. Olmi non fa che parlare al futuro. Racconta il passato solo nella misura in cui l’idea di futuro sta lì da sempre, da che mondo è mondo. Per questo i suoi film sono pieni di bambini e di ragazzi che cercano il loro posto. Che è comunque mobile, nel flusso mutevole degli equilibri, nell’inesorabilità della scomparsa, della memoria che trascolora, dell’oblio. Ma nulla si perde davvero, perché si accumula nel deposito infinito, collettivo, delle cose, attecchisce negli strati del tempo e della terra, come le anonime radici di un albero qualsiasi. Ed è sul quel terreno che poggiano le fondamenta di tutte le nostre costruzioni, delle architetture reali e immaginarie, dei progetti e delle visioni utopiche.

Olmi racconta la bellezza del quotidiano con la delicatezza dei poeti più grandi.  Quindi  “ama la natura, dono del creato”. Ma conserva in sé il furore dolce di predicare e costruire le possibilità di un mondo ancor più umano, oltre gli inutili incanti dell’estetica e dell’orgoglio intellettuale, oltre il tumore nero dell’odio, del disprezzo e della disperazione. Torneranno i prati… Per Olmi non c’è immagine che tenga al di fuori di questa tensione verso un’incontenibile tenerezza rivoluzionaria. Ogni immagine è un sogno di purezza. Che non è un dono perduto per sempre, al momento della cacciata dall’Eden. È una dura conquista, quasi impossibile se non fosse già racchiusa in noi, nell’angolo più segreto e inviolabile del nostro essere uomini. Si costruisce giorno per giorno, nelle scelte da compiere a ogni passo, nel ciclo continuo del lavoro e del giusto riposo, come diceva nonno Candido, nell’infinita e paziente cura da rivolgere a noi stessi, agli altri e alle cose. Sta nel pudore di ciò che non ha bisogno di apparire e nella verità di ciò che non si nasconde. La purezza è l’essenza dell’amore. E non è una dichiarazione di principio. Le parole non servono, le mie men che meno. Al massimo vengono dopo. L’amore riposa nel silenzio esplosivo di un gesto. E ogni film di Olmi, credo, sono sicuro, non è altro che il racconto di questo gesto, un atto d’amore, un frammento di questa scia senza fine che continua ad attraversare il mondo, nonostante tutto.

Un amico se ne è andato lasciandoci un’incredibile mappa per una vita che non siamo più in grado di capire ed affrontare. Avremmo voluto che ci accompagnasse ancora a lungo. Ci mancherà. Mi mancherà. Ma proveremo a seguire la strada, per quanto cammino ci sarà concesso…

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