Per mio figlio, di Frédéric Mermoud

Per mio figlio (Moka), ultima opera dello svizzero Frédéric Mermoud, tenta la strada del drama thriller/revenge story provocando un caos di intenti riscontrabile anche nella messa in scena

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Le revenge story allietano sempre il grande pubblico. Di fatto, la catarsi provocata dal raggiungimento di uno scopo, anche se sanguinolento, è pressoché impagabile, soprattutto se filtrata da un grande schermo. Per mio figlio (Moka), basato sul romanzo di Tatiana de Rosnay e vincitore del premio Variety Piazza Grande allo scorso Festival di Locarno, prova a stabilire un equilibrio tra un tema a dir poco sciorinato e venature più autoriali, che tuttavia confezionano un prodotto dall’andatura incerta.

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Ci troviamo in Svizzera, paese natale del regista Frédéric Mermoud. Diane Kremer (Emmanuelle Devos) è una donna decisa a trovare i colpevoli della morte del figlio. Una volta stanati, escogita più di un modo per stabilire un contatto, ma

03 si troverà alle prese con dei punti di rottura già presenti prima del suo arrivo.

Mermoud tenta di disegnare una traiettoria parallela e al tempo stesso perpendicolare agli stilemi più classici della storia di vendetta. Ovviamente il bacino di riferimento è galattico soprattutto se mescolato con il tema della perdita familiare. Effettivamente in Moka sembra di assistere ad una parata dei prototipi, partendo da Tutto su mia madre, decisamente più colorato, sopra le righe e riconoscibile come opera a sé, per incontrare poi una sfumatura thriller riallacciabile all’ultimo titolo dei Dardenne, senza tuttavia quel magnetico pathos.

La vicenda è a dir poco telefonata, dunque è concesso azzardare una riflessione sul totale disinteresse del cineasta per lo svolgimento della storia. Tuttavia, l’assetto visivo e in particolare un panorama quasi sempre sfocato appannaggio dei personaggi, fanno desistere dalla tentazione di considerare l’opera come una farsa, una bigmagnifica presa in giro da guardare con un altro paio d’occhi. Privando le immagini di una potenza algida che richiami la mancanza, ricordiamoci Rabbit Hole e la tradizione del dramma familiare, eliminando il rosso pulp di Tarantino oppure la naturale curiosità provocata dallo whodunit, qui riuscito a metà, tutto appare come abbozzato, vago e senza una spina dorsale robusta. Il personaggio della Devos è lungi dall’essere guerrafondaio, nonostante la sete di giustizia. Ed è proprio quest’ultima ad essere relegata a sottotrama, a vantaggio di un’ossessione alla Eva contro Eva, anch’essa privata di spinta catalizzatrice. In sostanza la strada intrapresa da Mermoud è ricca di viandanti, ma pochi sono quelli che sanno che direzione prendere.

 

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