Perfect illusion: Gaga Five Foot Two

Il doc Netxlif è l’F for Fake di Miss Germanotta, operazione concettuale che teorizza l’impossibilità di un’emozione non ricostruita, nonché perfetto preludio al prossimo ruolo in A star is born

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San Francisco, At&T Park, 13 agosto 2017.

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Assistere al concerto della musicista icona della cultura queer nella città che della cultura queer è il simbolo crea altissime aspettative, di uno show roboante che schiaffeggi l’America trumpiana con vestiti di carne, boa di piume rosa confetto e latex.

Ma Joanne, l’album così come il tour, è interamente giocato in chiave di sottrazione e tutto l’apparato pop messo in piedi in questi anni dal team di stylist della Haus of Gaga viene confinato a un medley dei brani più famosi di Miss Germanotta, con le passerelle che accompagnano i successi camp Born this Way e Marry the Night.

Lo capiamo presto sugli spalti: non è la Gaga che ci saremmo aspettati, ma un nuovo, ennesimo ribaltamento, la prospettiva spiazzante: Joanne è tanto la svolta country, che guarda alle dive di Nashville, quanto il concept album intimista che immagineresti accompagnato da sgranate immagini in Super8. La fruizione del pubblico muta di conseguenza: anziché lasciarsi andare a balli sfrenati, i 40.000 che affollano lo stadio dei Giants, tirano fuori accendini e luci di smartphone per coreografare istintivamente la ballad Million Reasons, con Gaga seduta al piano, a riempire lo stadio con la sola forza della sua voce.

Gaga: Five Foot Two procede sulla stessa linea ed è un perfetto corollario di album, tour e strategia di comunicazione del (nuovo) marchio Gaga. Un documentario che tanto più si sforza di apparire genuino, spontaneo e immediatamente emozionale tanto più risulta un’affascinante opera sul falso, quasi l’F for Fake della cantante italoamericana. Che, forse, proprio con questa operazione concettuale può finalmente sorpassare la role model e rivale Madonna nella faida ormai da tempo assodata tra le due icone pop più trasformiste di sempre.

gaga five foot twoDi questa falsità si rammaricava – con sorprendente ritardo critico sul tema – un articolo del New Yorker di qualche settimana fa, che tacciava l’opera, e in generale i documentari prodotti dalle star, di agiografia. Eppure, uno degli assunti base dell’antropologia osservazionale sta proprio nel ridimensionare l’importanza della verità dell’autorappresentazione del soggetto, in favore del falso come elemento assolutamente rivelatorio delle modalità in cui lo stesso soggetto si vede e vuole porsi al cospetto del mondo esterno (un po’ come accade ai serial killer-superstar di Mindhunter intervistati da Jonathan Groff…).

La svolta minimalista per cui Gaga si offre all’obiettivo struccata, in jeans e t-shirt, in contesti privati, personali, accanto a familiari o ai più stretti collaboratori, è chiaramente un nuovo look, la sua personale september issue, come quella raccontata da Anna Wintour nell’altro doc Netflix sulla costruzione del più importante numero di Vogue, che ogni anno detta tempi e ritmi della moda al mondo intero.

È la stessa Gaga a suggerire allo spettatore le coordinate della ricezione critica del prodotto, leggendo nella casa della nonna paterna il poemetto scritto dalla zia Joanne, morta diciannovenne in seguito a un’amputazione per un lupus mal curato, figura ispiratrice dell’intero album e soprattutto del brano che gli dà il titolo: “Hear what I’m not saying. Don’t be fooled. I wear a mask. A thousand masks. So I play the game. The glittering but empty parade of the masks”. Più chiaro di così…

hey girl

Il poema della zia, manzoniana lettera ritrovata casualmente nello scatolone uscito dalla soffitta, riassume l’intera estetica della cantante e di certo l’operazione di Gaga: Five Foot Two, col suo invito a leggere tra le righe di una continua e necessaria mistificazione della realtà e dell’emozione: “Come fai a postare qualcosa quando sai che la vedranno 18 milioni di persone?” le chiede Florence Welch, prima di registrare insieme il duetto per il brano Hey Girl. Ed è quello il nodo centrale del documentario: come possiamo ancora credere alla realtà del momento, fosse pure la telefonata straziante con l’amica malata di cancro (a Sonja Durham, nel frattempo scomparsa, è dedicato il film) o l’interno familiare in casa della nonna?

Questo piccolo home-movie è un momento così perfetto da rappresentare quasi un frammento a se stante all’interno del documentario. Gaga/Stefani che chiede alla nonna il permesso di poter mangiare una pesca, la finta scoperta sul momento di aneddoti che devono essere già stati raccontati centinaia di volte in famiglia, l’ascolto in diretta, tramite iPhone, del brano Joanne, con la camera posizionata alle spalle di nonna e nipote chiudendole in un ideale triangolo che trova il suo vertice nel ritratto della povera Joanne sulla parete di fronte.

gaga home movie

Dov’è l’emozione in questa sequenza così orchestrata? Nel disorientamento della nonna che, con un atteggiamento per nulla incline al mélo messo in piedi dalla crew, ricorda che sono passati quarant’anni e raccomanda alla nipote di non diventare sentimentale per quella storia…Il frammento e l’episodio della foto postata su Instagram, a uso e consumo dei fans, hanno la forza di concentrare in pochi istanti il conflitto di questi tempi tra la vocazione della star a ribassarsi nel quotidiano e quella della massa di autorappresentarsi come elemento eccezionale, extra-ordinario.

Questa ossessione morbosa per il “dietro le quinte” acquista un particolare rilievo anche in relazione alla nuova avventura lavorativa di Lady Gaga, anche questa subito posta come centrale dal documentario: quando la troupe varca la soglia della magione losangelina, Gaga sale una scalinata decorata con palloncini rossi e neri. “Cosa si festeggia?” le chiede Moukarbel e lei spiega che sono per la nuova produzione di A star is born, affidata alla regia di Bradley Cooper, in cui vestirà i panni che furono di Janet Gaynor, Judy Garland e Barbra Streisand.

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Lady Gaga e Bradley Cooper in A star is born

 

E l’intero Gaga Five Foot Two appare una sorta di backstage o prequel del film, continua costruzione del mito e rivelazione di fragilità private, del dolore dietro la fama e il successo: “A che prezzo Hollywood” – titolo quanto mai attuale nel pieno della bufera weinsteniana… – era il titolo del mélo originario di Cukor alla base delle varie versioni. Nell’esaltazione della fatica fisica e mentale, delle terapie, degli amori spezzati, Gaga non fa altro che immaginarsi come la nuova Esther Blodgett/Vicky Lester, fino al monologo drammatico, che parte in stile Hollywood classica, su sfondo nero: “Voglio solo fare musica e rendere felici le persone. Voglio andare in tournée e avere una famiglia.  Ma non riesco mai ad vere tutte queste cose insieme. Sono a una seduta fotografica mentre la mia vita sentimentale implode (…) Quando ho venduto 10 milioni di dischi ho perso Matt.  Ne ho venduti 30 milioni e ho perso Luke. Faccio un film e perdo Taylor. E’ come un turn-over…ma sono sola, ogni notte”. Il cortocircuito con l’immortale  “I’m Mrs. Norman Maine” pronunciato dalla Garland è immediato.
La sua cerimonia dell’Oscar è il SuperBowl: la camera nervosa di Chris Moukarbel filma l’attesa dell’intermission (“Perché c’è una partita di football prima del concerto di Lady Gaga?” ironizza qualcuno), gli spettatori vip, le ultime prove voce, la vestizione. E con perfetto timing, abbandona la sua protagonista nel momento che resta infilmabile, la solitudine assoluta della star nell’attimo prima dello show. Ce la mostra con le sue scarpette di rubino, prima di planare su Oz. Verso il cielo e forse oltre, over the rainbow.

 

Gaga: Five Foot Two. Il trailer

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