#PerSo2018 – Matti da slegare. Incontro con Stefano Rulli e Francesco Scotti

Dopo il film di Bellocchio, Agosti, Petraglia e Rulli – un’immersione nella realtà psichiatrica dell’Italia degli anni 70 – si parla della lucidità dei ricoverati e della follia di fare cinema

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Il cinema rende meglio le emozioni della vita reale“. Finisce la seconda giornata al Perugia Social Film Festival 2018 e il regista e sceneggiatore Stefano Rulli, accanto allo psichiatra Francesco Scotti, proclama la sua visione di cinema davanti ad una sala affollata e particolarmente attenta che non si perde nel flusso, dopo la proiezione del documentario del 1975 Matti da slegare (Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e lo stesso Rulli); considerato uno dei film più importanti del cinema italiano militante, racconta attraverso interviste, riprese e frammenti la vita quotidiana all’interno dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma), confrontandola con quella dell’ospedale di Perugia e Trieste, seguendo anche all’esterno alcuni dei ricoverati dimessi e impegnati, mentre riflettono sulle loro esperienze, nell’inserimento lavorativo, tra il giudizio degli altri e la stranezza di essere immersi in un mondo cosiddetto “normale”.

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Anche se la sala del Cinema Méliès fa un salto nel passato e si rende bianca e nera, la serata si propone vitale e accesa. Quest’anno, il Festival – che è nato nel 2014 da un progetto della Fondazione La Città del Sole – Onlus, impegnata nel campo della salute mentale e presieduta da Stefano Rulli – festeggia pure i 40 anni della Legge Basaglia, che promuoveva il cambiamento e l’umanizzazione delle pratiche manicomiali. L’idea di prolungare la lotta attraverso il Cinema, diversificando il contenuto del festival ma sempre sotto la logica di un percorso cinematografico reale e sociale che cerca di raggiungere la più profonda natura umana, non sembra affatto una follia. Infatti, la giornata è stata segnata da questa ricerca e impegno trasversale, con la proiezione precedente dei documentari The Family (Rok Bicek) – sloveno, premiato a Locarno, che segue durante 10 anni Matej, ragazzo nato in una famiglia di persone con disturbi mentali – e Dreaming under capitalism (Sophie Bruneau), inquietante ritratto della follia e degli incubi generati dagli spazi commerciali e dal modello neoliberista.

Per Stefano Rulli – come confessa dopo la proiezione di Matti da slegare – rivedere il film è stato anche ritrovare la spinta che gli ha fatto dedicare la sua vita al cinema e alla sceneggiatura. Il cinema documentario, secondo la sua visione, deve essere un mix tra un preconcetto chiaro e l’imprevisto, la casualità. E certamente, qualcosa di folle: “Prima d’iniziare a girare il documentario, siamo stati del tempo lì dentro l’ospedale, per conoscere bene la situazione. Abbiamo parlato con tantissime persone per capire cosa raccontare e chi riusciva a comunicarlo. Per costruire la struttura del documentario, avevamo trovato questo uomo ricoverato, una specie di Virgilio che accompagnava e portava avanti il filo del racconto. Il giorno prima delle riprese siamo arrivati la e il nostro Virgilio non era più disponibile; il suo compagno di stanza era stato accoltellato da un altro paziente e lui non era più in grado di parlare”. Così, la struttura narrativa ha dovuto lasciare il passo all’improvvisazione. “Cominciammo a girare cercando di riprendere il flusso degli atri e capimmo che la cosa più importante era saper ascoltare. Certo, anche come metti la macchina da presa, ma soprattutto il rapporto con la follia, darne uno sguardo ma con umanità”.

E qual è l’approccio a questo documento oggi, 43 anni dopo? Quanto siamo

andati avanti come società e individui e quanto siamo rimasti sospesi in un comportamento determinato, forse più folle di prima? Rulli la vede così: Oggi il film mi colpisce in un altro modo, allora mi sembrava uno strumento di lotta per muovere le persone verso una direzione. Adesso è diventato una pagina di storia, dei sentimenti, un ritratto delle condizioni umane di allora che per fortuna oggi sono inimmaginabili”. Idea condivisa dallo psichiatra Francesco Scotti, che visse l’elaborazione del film come collaboratore, sotto lo sguardo di un professionista della salute mentale:  “Bisogna sempre aver presente che si tratta di un confronto con la morte, non sui processi di evocazione del cattivo che finalmente viene punito o del buono che possiamo immaginare. È tutto spinto dalla necessità di comunicare l’esperienza, creare dei ponti comuni. Poi per me al centro di tutto c’é la frase di Mario Tommasini, Nulla è impossibile”.

Sia per lui che per Rulli, si tratta di far prevalere il cambio di mentalità, il modo in cui ci avviciniamo alla malattia e alla diversità, sia attraverso il cinema o qualsiasi manifestazione artistica che nel rapporto quotidiano. Quel rapporto che a volte è transitorio ma altre rimane per sempre. “Cosa ci dice il film oggi? Che dobbiamo riconoscere una psichiatria che non sia violenta e ricordare che le cattive cure provocano sempre una patologia nuova. Il manicomio non è un luogo ma un sistema”. Rulli la definisce come la cultura della solidarietà, che lui ritrova nell’osservazione sociologica del film, ma considera quasi sparita. “Nel film mi sembra così spontanea, era un periodo politico in cui si credeva che il mondo si poteva cambiare, sentire agli operai parlare continua a colpirmi. Oggi non ci manca soltanto il finanziamento ma anche la solidarietà, persone che innanzitutto cercano d’acquistare una certa dignità per se stessi e gli altri”.

Alla fine, si torna sempre al cinema, come punto ineludibile d’incontro e sbocco ma anche come specchio di ciò che vogliamo creare nella realtà. “Questa esperienza”, dice Stefano Rulli, “per me è stata fondante cinematograficamente. Io nasco nel mondo del cinema con questo film. Mi ricordo la prima cosa che ho visto girare, questa ragazza giovane che parla alla fine, lì è successa la magia. Perché mentre lei riscopriva le parole e la vita dopo anni di ricovero senza contatto con il mondo, io scoprivo il cinema insieme a lei. Questo ha segnato il mio rapporto con il cinema e la diversità”. 

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