PESARO 47 – Uno sguardo disincantato e "disincantevole" sulla realtà. Intervista a Cosimo Terlizzi


Sentieri Selvaggi incontra Cosimo Terlizzi, documentarista, performer e videoartista pugliese a cui è dedicata una retrospettiva all'interno della 47° edizione del Festival del Nuovo Cinema di Pesaro. "Questi tre giorni mi stanno fornendo la consapevolezza di non aver sprecato gli ultimi quindici anni della mia vita".

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Il Festival del Nuovo Cinema di Pesaro dedica una retrospettiva al documentarista, performer e videoartista pugliese Cosimo Terlizzi. Nella sala del Teatro Sperimetale saranno proiettati i documentari Murgia (tre episodi), Il solstizio di San Giovanni Battista e Folder. Uno spazio sarà dedicato anche alla sua attività di videoartista nell'ambito del Dopofestival.

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Sentieri Selvaggi ha incontrato il regista nel cortile di Palazzo Gradari.

 

Il Festival di Pesaro ha scelto di dedicarti quest'anno una retrospettiva, proiettando alcuni documentari e alcune opere che rientrano nella tua attività di videoartista. In tre giorni vedi concentrata qui tutta l'attività di questi anni. Che effetto ti fa?

 

Sono davvero onorato. Sto cercando di prenderla con tranquillità, anche se non è facile. Questi tre giorni mi stanno fornendo la consapevolezza di non aver sprecato gli ultimi quindici anni della mia vita. Il mio lavoro non si è perso e, soprattutto, non è stato ignorato, e questo non può che farmi immenso piacere. Il mio non è stato un percorso facile, come accade spesso agli artisti in Italia. Ciascuno di noi ha un percorso personale molto solitario e dobbiamo ricercare in noi stessi la forza e la passione per non mollare. A volte poi, si presentano di colpo situazioni come questa in cui le istituzioni ti tendono le braccia e consentono un accesso alle tue opere da parte di un pubblico più vasto.

 

Quali sono state le tappe principali del tuo percorso artistico?

 

Il mio è stato un percorso acrobatico e complicato, ma fin da piccolo avevo già una tendenza artistica molto forte. A soli cinque anni scelsi di seguire un corso di disegno perchè avevo ben chiaro sin da allora cosa avrei voluto fare nella mia vita. Tuttavia, mi sentivo quasi depistato dall'ambiente che mi circondava, come se ci fosse poca fiducia nei miei confronti, o comunque una scarsa volontà di assecondare quelle che erano le mie vedute artistiche. Mi sentivo ostacolato. Per questo motivo, quando sono cresciuto, ho deciso di spostarmi a Bologna dove ho trovato l'ambiente dinamico che cercavo. Una realtà profondamente diversa che mi ha consentito l'accesso a quegli spazi artistici dove è stato possibile sperimentare e sperimentarmi.

 

I documentari che saranno proiettati nel corso del festival sono in tutto tre. Il primo, anche in ordine cronologico, è Murgia (tre episodi). Puoi dirci qualcosa su questo film?

 

Questo documentario è stato realizzato nella mia terra di origine, la Murgia barese, ed è quindi una sorta di omaggio a questi luoghi, se non un vero e proprio atto d'amore. Quando ho deciso di realizzare questo documentario, mi sono immediatamente chiesto cosa io avrei voluto vedere in un documentario sulla Murgia, e questo fa sì che sia presente in questo film un elevato grado di soggettività e di autorialità, dal momento che si fonda su un lavoro di ricerca stilistica, oltre che documentaristica.

 

In effetti nel tuo film riescono a convivere elementi documentaristici ed elementi di finzione, i quali fanno sì che si possa parlare tranquillamente di una docu-fiction.

 

Sì, è una scelta che deriva dalla mia convinzione che al giorno d'oggi non è più possibile fidarsi ciecamente di ciò che ci viene presentato, nei documentari così come nelle foto che dovrebbero attestare la nostra identità. Tutto oggi è pilotabile, manipolabile, e per questo ho pensato di gettare uno sguardo disincantato e disincantevole sulla realtà che mi accingevo a raccontare, per educare lo spettatore e, contemporaneamente, portarlo in un'altra dimensione, tentando di conquistare in questo modo la sua fiducia.

 

Stando ancora su Murgia, è molto interessante il dialogo che si instaura tra il testo enunciato dalla voce off e le immagini. Inizialmente tutto sembra assolutamente convenzionale, quasi come se la voce derivasse da uno dei tanti documentari sulla natura che passano in televisione. Poi, improvvisamente, qualcosa cambia e l'ironia diventa la cifra stilistica di quella stessa voce: una voce che arriva persino a instaurare un dialogo impossibile con i personaggi…

 

Sono stato sempre molto affascinato dalle voci nei documentari. In alcuni casi sono molto piatte, fredde e distaccate. Il mio intento era quello di “riscaldare” questa voce; di renderla quanto più possibile umana nella sua imperfezione. L'effetto deve essere straniante; lo spettatore deve essere quasi stordito e sedotto. E ciò mi riconduce verso la finalità di questo documentario: far innamorare la gente dei luoghi che vengono rappresntati. L'ambiente deve sprigionare una sorta di sensualità, lasciando emergere con forza quella “bellezza totale” che lo caratterizza.

 

Quello che mi chiedevo, guardando il documentario, era se le informazioni sulla vegetazione che ci vengono fornite con ironia da questa voce narrante sono vere.

 

Sì, assolutamente, è tutto vero. E, infatti, una delle sfide sta proprio nel conquistare la fiducia dello spettatore. A mio parere è questa la difficoltà principale.

 

Passando all'altro documentario che è stato proiettato ieri, Il solstizio di San Giovanni Battista, ho notato che in questo caso il tuo sguardo sulla realtà cambia profondamente. È uno sguardo più distaccato e credo che ciò sia dovuto al fatto che questo film è girato al nord, in Piemonte, in un ambiente che non è la tua terra d'origine. È così?

 

Sì, è proprio così. Percepivo chiaramente di muovermi in un ambiente che sentivo estraneo. A questo si aggiunge poi il fatto che sentivo di dover mostrare grande rispetto nei confronti degli argomenti che trattavo, soprattutto quando si parlava dei riti popolari di questa zona. Si tratta di un argomento che potrebbe facilmente risultare ridicolo, e questo non era certo l'effetto che volevo ottenere. Anche il tono della voce off è molto più controllato in questo documentario. Volevo conservare intatto un certo mistero rispetto a ciò che mostravo, anche per chè il concetto di “segreto” è parte di integrante di questi riti. Quando mi muovevo all'interno del parco della Murgia sentivo un'empatia nei confronti dell'ambiente che era assolutamente impossibile replicare in Piemonte. Sarebbe risultato qualcosa di innaturale.

 

Nei prossimi giorni verrà proiettato Folder. Puoi anticiparci qualcosa su questo film?

 

Questo film può essere considerato un diario, o più precisamente un archivio. È come se io aprissi una cartella, “folder” in inglese, nella quale ho conservato materiale per un anno: fotografie, video, chat, suoni mp3. Tutto questo materiale è stato montato e viene mostrato nel documentario, che assume la forma di un diario audiovisivo. Questo film è stato per me una sorta di sfida, dal momento che mi costringeva a mettermi in gioco in prima persona, cosa che fino a questo momento avevo scelto di non fare nei miei film. Tuttavia, la mia presenza non è stata una scelta a priori, ma una necessità dettata dall'argomento che si delinea nel corso del film. Mettermi in gioco in maniera diretta serve a conferire forza all'argomento che viene affrontato.

 

In futuro pensi di dedicarti ancora al documentario o potersti approcciarti anche ad un film di finzione?

 

In realtà sto portando avanti un progetto per un film di finzione. Sto scrivendo il soggetto e spero che già il prossimo anno sarà possibile iniziare le riprese.

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