#PesaroFF52 – Immagini

La ricerca sulle immagini al centro dei temi del primo giorno del festival. Covered with the blood of Jesus di Tommaso Cotronei e The ocean of Helena Lee propongono due differenti ipotesi

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Poiché ci sono vari modi di comporre le immagini e poiché, soprattutto, ci sono altrettanti modi per stabilirne la loro rispondenza ai propri modelli narrativi, due film visti oggi a Pesaro rispondono ad esigenze differenti e misurano la bellezza dell’immagine secondo parametri del tutto dissimili.
Il calabrese Tommaso Cotronei è sicuramente una delle figure di cineasti italiani più appartate, che segue un proprio percorso, in patria poco apprezzato e molto più stimato all’estero e oltralpe soprattutto (grazie al festival di Pesaro che ha voluto invitarmi). Una decina di lavori in tutto che seguono un filo conduttore preciso sia artistico, attraverso un naturalismo che si forma da solo davanti alla macchina da presa (scusate se in alcune sequenze ho fatto il regista) e un occhio disincantato su piccole o grandi miserie umane. Anche questo suo ultimo film Covered with the blood of Jesus, in Proiezioni speciali, girato in Nigeria nel delta del Niger, non sfugge a queste caratteristiche e pur avendo come comune denominatore lo sfruttamento petrolifero da parte dei bianchi, come in un puzzle, le vicende che si sviluppano, restituiscono una composita stratificazione di storie e di personaggi che vivono in quei luoghi inquinati da uno sfruttamento incontrollato. Cotronei, indubbiamente affida quasi completamente all’immagine che ricerca pazientemente nella congerie di proposte che il reale gli offre, ogni compito legato al suo rapporto con lo spettatore e svela la possibilità di una narrazione multipla, multitasking, che priva di un centro preciso, si dirama scegliendo direzioni inattese. Il reale come fonte inesauribile di eventi dai quali si dipartono le ipotesi narrative.
Nella sezione principale del Concorso The Ocean of Helena Lee di Jim Akin. Tratto dalle vicende autobiografiche dello stesso regista da ragazzino che ha vissuto tra la casa e il mare di The ocean of Helena Lee, AkinVenice Beach, nel ricordo della madre morta prematuramente e con un padre affettuoso, ma irresponsabile che finisce con il togliersi la vita, il film dell’eclettico regista americano che vira al femminile la sua riflessione sul mondo, fonda, anch’esso ogni effetto emozionale sulla capacità di comunicazione delle immagini. Una ricerca perfino troppo insistita che dà il meglio di se solo quando perde il controllo assoluto e che sembra quasi sempre essere alla ricerca di un “bello universale” già pronto per essere definito in nessun altro modo che così. Senza spiccare per originalità, visto che su questo stesso solco altri autori si sono cimentati, raccontando il crinale che si deve attraversare per guardare la propria vita da adulti e non più da adolescenti, tuttavia The Ocean of Helena Lee crea empatia con il pubblico, ma senza mai disturbare troppo. Tutto un po’ troppo dentro le regole già scritte e senza troppe sorprese. Pur comprendendo le esigenze terapeutiche che Akin ricerca dentro la costruzione del suo film, non possiamo dimenticare che in tema sono stati realizzati ad esempio Tideland il mondo capovolto di Terry Gilliam e il non perfetto Low tide di Roberto Minervini, entrambi poco inclini a patti precostituiti con il pubblico e sicuramente molto coraggiosi nel raccontare l’inverso della speranza, in un sogno americano che non si vede mai.

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