#PesaroFF53 – The First Shot, di Yan Cheng e Federico Francioni

Il documentario come racconto dell’irraccontabile, come uno sguardo che attraversi gli spazi vuoti, le assenze, i momenti di silenzio e solitudine. Il film vincitore del Concorso Nuovo Cinema

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La generazione post-Tienanmen. Cosa vuol dire essere cinesi, oggi, per un ragazzo di vent’anni, per quelli che sono nati dopo il 1989 e le fatidiche proteste di piazza represse nel sangue, per chi non ha mai vissuto una vera “partecipazione popolare” né ha mai neanche vagamente avvertito le promesse rivoluzionarie? Cosa vuol dire essere “giovani” in un paese che vuole proiettarsi nel futuro senza essere disposto a discutere il suo presente e il suo passato recente?

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Yan Cheng e Federico Francioni incontrano tre ragazzi, più o meno loro coetanei, che vengono da ambienti diversi e vivono esperienze differenti. Peng Haitao (1990) si è stabilito nella periferia di Pechino, dove le vecchie case vengono smantellate per lasciar spazio alle nuove costruzioni. Ha ambizioni da artista e intanto cura un blog in cui cerca di raccontare, tra le maglie della censura, gli anni della proteste. Liu Yixing (1990) è un musicista che gioca con le sonorità elettroniche e con le immagini in movimento, mescolando le forme di espressione in un’arte personale. Dopo alcuni anni passati in Canada, è tornato in patria, si è stabilito in un appartamento nei piani alti di un grattacielo e da lì vede cambiare giorno dopo giorno lo skyline della città. You Yiyi (1992), invece, vive in Inghilterra, a Londra. È tornata nel villaggio natale del padre, per una breve visita ai nonni anziani.

the first shot2Dov’è casa, oggi, qual è il mio posto? Sembra questa la domanda fondamentale. Perché seppure Liu affermi di non voler mai più lasciare il suo appartamento, sebbene Peng lodi la comodità del suo loft studio, il problema, per tutti, è di non riconoscere alcun luogo come proprio, di non poter rivendicare alcuna appartenenza. Innanzitutto perché sono i luoghi a cambiare ai ritmi vertiginosi di un’innovazione cieca e testarda, lasciando a terra, tra le futuristiche meraviglie del progresso, le macerie del passato, delle tradizioni, la trama stessa dei rapporti che si è fatta polvere e calce. Ed è qualcosa che va al di là della naturale teenage wasteland o di quell’invincibile senso di solitudine che avverti nel momento in cui capisci che le cose cambiano e che la vita è intessuta di perdite. Qui è come vivere un terremoto permanente – e magari non sarà un caso che i due registi vengano dal Centro Sperimentale de L’Aquila, abbiano vissuto i mille disastri della geologia e della burocrazia delle istituzioni statali… Come già in Jia Zhang-ke, non distingui più le costruzioni dalle distruzioni, le architetture dai sabotaggi, le fondazioni dalle demolizioni. Non avere più geografie di riferimento vuol dire non aver più orizzonti temporali, non poter fare appello neppure alla memoria, a un’ipotesi di verità della Storia, coscientemente cancellata dalle strategie di regime. Restano gli album dei ricordi, gli affetti, i legami familiari, ma anch’essi tendono a dissolversi nello smembramento dell’identità cinese… lo sa bene Yiyi, quando confessa, terribilmente, di non aver messo alcun passato nel suo futuro. E, allora, forse, non rimane che esprimersi per vuoti, per silenzi, rimozioni, i post cancellati dalla censura, i fantasmi sul muro, scheletri virtuali di una realtà impossibile…

Ecco, dopo le prove contemplative di Tomba del tuffatore, Yan Cheng e Federico Francioni vincono il Premio Lino Micicché a Pesaro, affermando ancor di più un’idea di documentario come racconto dell’irraccontabile, come uno sguardo che attraversi gli spazi vuoti, le assenze, i momenti di silenzio e solitudine, quelli in cui non c’è evento perché non c’è azione (e molto spesso neanche parola…). Incrociano le attese, le sospensioni (tuffi in sospensione). Si soffermano sull’andamento monotono, indifferente dei gesti, nella convinzione che, prima o poi, possano rivelare qualcos’altro, che sta dentro, al di là, nel cuore interno dei comportamenti e degli atteggiamenti. E sanno quanto sia preziosa anche l’immagine mancante, quella mai troppo piena, sgranata, quella che si muove a scatti, rubata da un telefonino (il 50% di questo film è girato con l’iPhone recitano i titoli di coda). Ed è così che, piano piano, fanno parlare le cose e portano i loro personaggi ad aprirsi, a confessare il proprio grumo interiore in un istante di improvvisa verità. Che cosa vedi attraverso la lente?, chiede Peng, dopo aver implorato di “tagliare”. Dopo lo sparo, l’esplosione, shot, ecco il taglio, cut. E poi ancora uno sparo, dopo the first shot, la rivoluzione permanente… Il cinema si gioca sempre qui, in questo equilibrio tra la clausura e l’apertura, tra la sottrazione e l’emersione fulminante di un senso che attraversi l’immagine da parte a parte.

 

 

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