#PesaroFF54 – ★, di Johann Lurf

Come il Beuys di 7000 Oaks, Lurf inventa un’opera aperta, da integrare e coltivare nel tempo, da lasciare all’immaginazione delle generazioni future. Un intervento di sky art che ci porta alla deriva

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Basterebbe solo il titolo a raccontare l’inafferrabilità da esperimento in divenire dell’ultimo lavoro di Johann Lurf. Questo simbolo grafico a forma stella, che già rischia di mandare in tilt la formattazione dei nostri programmi di scrittura, è immediatamente refrattario a una lettura unica, certa, definitiva. “Cambia secondo la lingua dello spettatore”, dice Lurf, ambendo magari a un universalismo di senso che superi le distanze tra gli idiomi, oltre la “torre di Babele” dispersa nei frammenti delle parole “non sottotitolate” che accompagnano le mille notti stellate della storia del cinema. Un cinema ripreso dopo il crollo, fatto di macerie, di spezzoni isolati, resti o reperti. E ricomposto da Lurf innanzitutto sulla base della convenzione cronologica e poi secondo un sistema tutto personale di assonanze visive e sonore. Dall’epoca del muto ai giorni nostri, all’incirca 550 film (puntualmente elencati in chiusura), ripresi solo per estratti, le sequenze di volte stellate. Stelle fisse, cadenti, offuscate, comete, meteore, satelliti e pianeti, stelle reali o in grandissima parte “finte”, ricreate o computer o dipinte su fondali. Non c’è nessun intervento da parte dell’autore austriaco, nessuna evidente manipolazione da postproduzione. Solo compilazione, un catalogo purissimo. Riproposto però nella modalità di riproduzione più fedele possibile agli originali, su grande schermo, in alta definizione, con un sistema sonoro in grado di dar conto dell’evoluzione tecnologica nel corso dei decenni. Come se Lurf inseguisse l’utopia della coincidenza tra il cinema fatto e visto.

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Ma il logogramma, pur suggerendo immediatamente il suo contenuto, ha comunque bisogno di essere articolato in parola, va tradotto e così ritorna alla divisione delle lingue particolari. Ed è il segno che, in qualche modo, quella ★ vada riempita, rimodulata dalla nostra esperienza personale, dal nostro sistema di riferimenti e di espressioni. Insomma, ad andare in crisi è la stessa tenuta del testo filmico, che dichiara sin da subito, dal titolo appunto, la sua infinita declinabilità. E quindi la sua precarietà. Star, Stella, Stern, o comunque lo si voglia chiamare, è un oggetto che per forza di cosa non chiude, si smargina, offre il fianco alla svista eventuale, alla dimenticanza, a tutte le immagini ancora non girate, alle stelle ancora da inquadrare, si presta alla possibilità di interventi diversi, di aggiunte e tagli che seguono l’arbitrio della durata di proiezione, dei saperi, dei criteri selettivi (nell’elenco non c’è nessun documentario, ad esempio, “sono più interessato all’interpretazione dell’immagine che alla sua rappresentazione attuale” dice Lurf…). Del resto, sebbene le immagini siano molto spesso simili, perché “le costellazioni son quelle”, quante vedute occorrerebbero per mappare l’intera volta celeste, dai margini di un polo all’altro? E quanti punti di vista? Ecco, questione ancor più fondamentale, il catalogo di Lurf mette in discussione anche la sua posizione d’autore. Non solo e non tanto perché tutto è lasciato alle immagini altrui. Ma ancor più perché nella ricerca e nella compilazione intervengono i ricordi, i suggerimenti, le segnalazioni, gli archivi di decine e decine di amici e collaboratori. Quasi come il Beuys di 7000 Oaks, Lurf inventa un’opera aperta, da integrare e coltivare nel tempo, da lasciare all’immaginazione e alle cure delle generazioni future. Un intervento di sky art che, ancor più, concede a noi spettatori la libertà di un percorso del tutto personale, eccentrico, nomade. Perché al di là dello sforzo vano (e francamente inutile) di riconoscere le fonti e individuare le mancanze, al di là della suggestione immersiva della composizione visiva e sonora di Lurf, il vero fascino di quei cieli stellati sta nelle mille vie d’uscita che si aprono tra le sequenze e che ci regalano la possibilità di andare alla deriva, per i fatti nostri, nel flusso ininterrotto delle immagini.

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