#PesaroFF54 – Zerzura, di Christopher Kirkley

Restituisce quel senso di profondo sgomento spirituale che nasce da sentimenti di nostalgica assenza per un’Africa immaginata, l’emozione segreta e personalissima che si definisce mal d’Africa

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La linea dell’orizzonte disegnata dal deserto non fa intravedere la mitica città di Zerzura, carica d’oro e altre ricchezze, città invisibile, che potrebbe essere uscita dalla fantasia di Calvino, e che Ahmoudou deve raggiungere per trovare il fratello scomparso. Il suo viaggio tra le allucinazioni del deserto si allarga e naviga dentro il mito di un’Africa insolita e misteriosa.
Zerzura, dello statunitense Christopher Kirkley, selezionato per il Concorso, nasce come produzione dal basso e si avvale di una collaborazione indispensabile della popolazione Tuareg dei luoghi del Niger dove è stato girato con improvvisazioni immediate che sono confluite direttamente nel montaggio finale senza ulteriori ciak per trovare la migliore performance.
Christopher Kirkley, già conosciuto qui a Pesaro per il suo precedente Rain the Color of Blue with a Little Red in It, è un archivista musicale ed etnografo che da anni cura un progetto sulla musica del Sahel. Zerzura è quindi la sua seconda prova di regia e se la prima conservava il sapore di un lavoro naif carico di interesse per la novità della materia trattata, oltre che per il metodo originale che Kirkley metteva in pratica, questa seconda prova di maggiore maturità, non fa che confermare le sue doti di originale narratore attraverso la musica e l’immagine e soprattutto, in tempi cui tutto è stato visto e nulla più sembra sorprendere nessuno, la capacità di inventare ancora un immaginario che possa diventare patrimonio comune anche per gli spettatori così distanti dalle culture che hanno ispirato la storia.
Kirkley con la complicità di musicisti del luogo e l’essenziale collaborazione di Ahmoudou

Madassane, che interpreta il ruolo principale del viaggiatore alla ricerca del fratello, sospende il suo film in quel limbo poco frequentato del cinema etnografico e musicale, tirando fuori un western del deserto africano che si nutre dei miti del luogo e che rimanda a quel senso favolistico di un’Africa magica e profondissima.
Zerzura, quindi, all’interno di uno sviluppo narrativo che si forma attorno ai miti radicati e alle magiche apparizioni, restituisce quel senso di profondo sgomento spirituale che nasce da sentimenti di nostalgica assenza per un’Africa immaginata, restituisce, in altre parole, l’emozione segreta e personalissima che si definisce mal d’Africa e che le musiche di Ahmoudou Madassane, già componente del gruppo musicale di Mdou Moctar figura centrale per il film precedente di Kirkley, vogliono sempre efficacemente sottolineare.
Il film nella sua versione ultima e definitiva è il frutto di un lungo periodo di preparazione che ha visto il regista affascinato dalle narrazioni favolistiche che arricchivano il mito della città di Zerzura, realmente immaginata dalla fantasia popolare come una città e un’oasi colma di ricchezze. Al contempo Kirkley, come sottolinea nelle sue dichiarazioni sul film, voleva creare per Zerzura un ambiente in cui la terra fosse fatta di deserti aperti e confini senza legge, ma incorporando anche il ricco folclore e le storie soprannaturali che permeano la vita di tutti i giorni. Per queste ragioni ha scelto lo stile del western che sembrava costituire un modello naturale per questa storia. Ma, nonostante l’utilizzo di un modello per antonomasia occidentale, il suo cinema si fa, invece, sempre più distante da ogni visione occidentale e il suo sguardo, quello che resta impresso nello schermo, prescinde da qualsiasi contaminazione che provenga da quelle civiltà. Zerzura diventa così non solo un altro esperimento per un cinema etnografico che, come lo stesso autore sottolinea, incontra quello di Jean Rouch e sotto altre suggestioni quello di Alexander Jodorowski, ma si attesta come un esempio di cinema realmente differente da ogni altra specie e genere, puro nella sua essenza visiva, che si avvale dei campi apertissimi e infiniti del deserto oltre che della bellezza struggente dei luoghi, che restano altrettanto esaltati dalla curata fotografia del film.
Christopher Kirkley si scopre essere un inventore di immaginari. Con il suo lavoro invisibile, ma essenziale prosciuga ogni lunga discussione sulla cultura occidentale che sopravanza, colonizzandole, quelle degli altri luoghi. Il suo cinema e il suo lavoro complessivo, prescindono da questi modelli culturali, lavorando esclusivamente su quelli che rivestono interesse e il risultato di questa ricerca si sovrappone perfettamente ad ogni altra forma di valorizzazione di quelle culture, restituendo non solo quell’immaginario radicato, ma permettendo, ancora oggi la scoperta di una cultura così essenziale e così profondamente multiforme, che Kirkley e l’intera compagine di musicisti e scrittori ha saputo restituire integra e mai contaminata.

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