Pitch Perfect 2, di Elizabeth Banks

Il film sembra voler lambire la sgradevolezza intenerita del cinema di Apatow, ma non ha però purtroppo fino in fondo il coraggio di sposarne anche l’amara poetica da losers senza speranza

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Avevamo lasciato Elizabeth Banks a Berlino in quella che forse è la sua interpretazione più convincente in carriera, nel bellissimo Love & Mercy di Bill Pohlad/Oren Moverman, e la ritroviamo adesso dietro la mdp per questo bizzarro ibrido tra musical da competizione e commedia sboccata al femminile, di fatto trainato verso lidi di scorrettezza apatowiana dalla nuova schiacciasassi dei corpi comici della nostra generazione, l’esorbitante Rebel Wilson. Se il film sembra voler lambire la sgradevolezza intenerita del cinema del mentore di tutti noi Judd, non ha però purtroppo fino in fondo il coraggio di sposarne anche l’amara poetica da losers senza speranza, virando nel finale verso soluzioni più rassicuranti e in odore di episodio di passaggio.
Si tratta ad ogni modo di una forma di cinema che Banks ha lambito più volte in carriera, sin dallo splendido Zack & Miri di Kevin Smith, ed è quantomeno da supportare la dedizione dell’attrice nei confronti della tradizione comica che la spinge ad esordire così nella regia del lungometraggio, dopo tre corti (uno dei quali per l’appunto inserito nel demenziale corale Comic Movie).

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Banks riprende le fila del film di Jason Moore del 2012, che già la vedeva in questo ruolo di commentatrice radio perfida e dalla battuta al vetriolo, una sorta di versione leggera del suo personaggio negli Hunger Games, e sposta il fulcro della vicenda dalle traiettorie sentimentali di Anna Kendrick, sostanzialmente messa da parte dopo il prologo, all’innesto della giovane Emily (Hailee Steinfeld), nuovo arrivo nel team di performer a capella.
Come in ogni sequel che si rispetti, le infallibili cantanti collegiali del team delle Bellas devono stavolta vedersela con un avversario decisamente più temibile, la crew tedesca Das Sound Machine di metronomica precisione sintetica kraut, mentre il torneo internazionale di Copenaghen è alle porte.

Quando funziona, il film sembra quasi trovare l’ispirazione di un Nicholas Stoller tra i più canterini (più Gulliver che 5 anni di fidanzamento, ovviamente), compresa la parata di ospiti musicali illustri (da Snopp Dogg alla giuria al completo di The Voice USA con Adam Levine, Christina Aguilera, Pharrell…): quando non va, è perché Banks ha degli evidenti problemi con le sequenze musicali e di coreografia, da cui si tiene più che può alla lontana, affidandosi ai sabotaggi puntualmente disastrosi di Rebel Wilson (la sequenza della dichiarazione d’amore all’amatissimo nerd Bumper in riva al lago è senza dubbio la perla dell’intero lotto).

Sottotraccia, tra un’interpretazione e l’altra di micidiali classici del repertorio di Beyonce, il film porta avanti una piccola poetica di rivalsa del brano originale nei confronti del sicuro ricorso al potere della cover, che potrebbe essere vista come dichiarazione d’intenti dell’intera saga nei confronti dei capisaldi storici (quante volte al giorno fischieranno di questi tempi le orecchie a John Landis?), fragile quanto deciso e convinto tentativo di rimarcare una propria identità inedita.

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