Polish Film Festival a Gdynia 2018. Concorso. Famiglia, identità ed ideologie

Analizziamo alcuni dei titoli inseriti nella main competition del Polish Film Festival di Gdynia, che raggruppa le migliori produzioni annuali della cinematografia polacca contemporanea

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La main competition del Polish Film Festival raccoglie il meglio della produzione polacca annuale, lavori che magari prima che in patria sono stati visti all’estero, ospiti di qualche festival internazionale. Questo è quanto è successo a Fuga (Fugue), opera seconda di Agnieszka Smoczyńska che prima di essere presentato in patria ha avuto l’onore di essere selezionato per la Semaine de la critique competition di Cannes. Alicja è una donna che ha perso la memoria trovata a vagare per la città con aria smarrita. Rintracciata la famiglia si trova a dover vivere con le aspettative di madre e moglie che le competono, ruoli per i quali nella nuova identità che ha costruito per sè stessa non trova posto. Attraverso le inquadrature la regista è bravissima a trasmettere la distanza che si è creata all’interno del nucleo familiare, con gli ambienti interni che hanno perso uno dei loro connotati principali, il calore, e quelli esterni perfetti per associare il gelo dell’inverno all’indifferenza emotiva della protagonista, chiamata ad affrontare il buio della mente per sollevare la nebbia oppressiva dalla quale si sente avvolta.

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Dopo molti anni ritorna in famiglia anche Chudy, il protagonista di  Dziura w głowie (A Hole in the Head), sorprendente opera prima di Piotr Subbotko, che trova la madre malata ed incontra un uomo misterioso che diventerà per lui un ossessione. Prodotto tra gli altri da Wajda Studio, il film inizia il racconto mostrandoci la vita di Chudy che scorre da un palcoscenico all’altro con un gruppo teatrale per rappresentare delle opere di Thomas Bernhard, e qui c’è una seconda sorprendente coincidenza con il lavoro della Smoczyńska, ossia un’altra perdita di identità, stavolta però provocata dal vuoto creato dal salto da una maschera ad un altra. Quello che non cambia è la ricerca di senso esistenziale, in un volontario rivolgersi alle proprie paure, dentro uno specchio di generazione, smembrando i volti dell’angoscia per trovare i tratti solidi o come nel caso di Alicja cercando nello specchio un’immagine che è scomparsa.

Piuttosto sconclusionata è invece la famiglia di Jak pies z kotem (A Cat with a Dog), di Janusz Kondratiuk, che si trova ad affrontare delle difficoltà quando Andrzej, colpito da un ictus, ha bisogno di aiuto: in assenza della moglie, impegnata a vivere in un mondo di fantasia, ad assisterlo dovrà pensare suo fratello. Tratto da una storia vera, il regista scegli di esporre gli eventi piuttosto tragici servendosi dell’ausilio della commedia, con un tocco demenziale come anche l’altra in concorso 7 emotion, ma con un grado di surrealtà molto minore. I nuclei familiari interessati dalla storia di  Zabawa zabawa (Playing Hard), realizzato da Kinga Dębska sono tre, tutti attraversati dal disastro dell’alcolismo cronico. Qui però l’aspetto familiare entra in forma indiretta essendo la struttura del film costruita sopra un impianto con tre protagoniste, Dorota, Teresa e Magda, e sui problemi inerenti al loro rapporto con la bottiglia, che ovviamente ha delle ricadute sul piano lavorativo e su piani più strettamente personali. L’interessante soggetto di partenza paga comunque un appiattimento dei personaggi impossibile da ignorare, tanto quanto alcune conclusioni morali di cui potrebbe il film fare a meno.

Povertà, repressione, speranza, amore sono ingredienti del film di Andrzej Jakimowski, Pewnego razu w listopadzie (Once upon a time in November), ambientato nel Novembre del 2013 e che segue le vicende di Mareczek e Marusia alle prese con problemi di alloggio in una Varsavia dove cominciano a spirare i venti del nazionalismo, come viene mostrato usando immagini documentarie degli incidenti avvenuti nelle strade il giorno 11 quando, in concomitanza con l’apertura della conferenza sui cambiamenti climatici dell’Onu e della Marcia per l’Indipendenza, nelle piazze si sono riversate sigle di estrema destra, con le strade della città diventate teatro di una vera guerriglia urbana con incendi, distruzioni e sassi contro  le forze di polizia. Questa marea montante di intolleranza assume valore storico per gli sviluppi che negli anni successivi hanno visto le formazioni estremiste guadagnare consensi prima nei sondaggi e poi nelle urne di tutta Europa, nel film viene utilizzata per costruire l’orizzonte fissato negli occhi di Mareczek, disorientato e costretto a fare i conti con una realtà lontana dalle ingenue illusione di gioventù ed obbligato a gettare uno sguardo maturo e preoccupato sull’avvenire.

Supportato da una base scientifica, ma non meno sprovvisto di ideali da inseguire, anche soltanto l’ambizione di finire sui manuali tramandati ai posteri, è il protagonista di  Eter (Ether), di Krzysztof Zanussi che sarà presentato in Italia in anteprima al Festival di Roma il 19 Ottobre, che come un novello Faust conduce degli esperimenti dentro un avamposto dell’Impero Austro Ungarico. Dopo essere sfuggito alla condanna per avere avvelenato nel tentativo di sedurla una giovane donna, il fisico, curiosamente lo stesso campo di studi del regista, rischia di compromettere, cercando di ottenere successo nella ricerca, la sua stessa anima e vede nell’amore l’unica possibilità di salvezza. Tra i titoli più attesi va annoverato senza dubbio Twarz (Mug), di Małgorzata Szumowska già vincitore dell’orso d’argento, gran premio della critica al Festival di Berlino 2018, la storia di un che in seguito ad un incidente subisce un trapianto del volto e soffre di problemi d’identità.

The Mute

Completano il quadro della rassegna principale del festival Krew Boga (The Mute), di Bartosz Konopka e Juliusz (Julius), di Aleksander Pietrzak. Konopka cerca di associare ad una fotografia che immediatamente riporta ad un immaginario horror, insieme ai costumi e soprattutto al make up, problematiche legate all’indottrinamento cristiano di popolazioni pagane, con un effetto spiazzante ma reso davvero poco plausibile da un uso eccessivo dell’elemento psicologico, lasciando totalmente disattesa l’aspettativa per qualcosa di efferato. Pietrzak torna ad esplorare un rapporto padre figlio dopo il cortometraggio Me and my father dedicato allo stesso tema. Julius è un insegnante d’arte che ha un problema: un padre pittore che si rifiuta di crescere e passa la vita tra un party e l’altro, nonostante sia già rimasto vittima due volte di infarto, per il quale deve trovare una soluzione che possa influenzarne i comportamenti prima che sia troppo tardi, e sembra averla trovata in Dorota. Ma i guai, come di regola nelle commedie che si rispettino, stanno solo per cominciare.

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