PREFERISCO IL RUMORE DEL MARE














Regia: Mimmo Calopresti
Sceneggiatura: Mimmo Calopresti, Francesco Bruni
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Massimo Fiocchi
Musica: Franco Piersanti
Interpreti: Silvio Orlando (Luigi) Michele Raso (Rosario), Paolo Cirio (Matteo), Fabrizia Sacchi (Serena), Andrea Occhipinti (Massimo), Mimmo Calopresti (Don Lorenzo)
Produzione: Biancafilm, Mikado, Rai, Arcapix
Distribuzione: Mikado
Durata: 90'
Origine: Italia, 1999.


In mezzo a un cinema italiano sempre così 'costruito' a tavolino, totalmente speculare al mondo dei mass-media, superficiale e pieno zeppo di luoghi comuni, di banalità e frasi fatte, i film di Mimmo Calopresti ci appaiono ogni volta come degli 'alieni', dei buffi e curiosi extraterrestri che vengono a raccontarci le strane storie di alcuni esseri chiamati 'umani'. E nel caos della dilagante 'furberia', dei racconti cinematografici che occhieggiano alla tv, alla stampa, persino a Internet, e che cercano una complicità fittizia nello spettatore, sorprende come invece Calopresti ci si porga di fronte con tutta la sua sincerità di regista, mostrandoci storie e personaggi così 'veri' da sembrare quasi 'irreali'. E ci racconta, ogni volta, solo quello che conosce, e bene, quasi un capitolo per volta di un percorso insieme umano e cinematografico, non autobiografico seppure fatto completamente con pezzi concreti della propria esistenza. In Preferisco il rumore del mare questa sincerità 'di sguardo' assoluta di Calopresti (che effettivamente lascia interdetti, esterrefatti, non si è preparati a tanta 'verità' delle immagini, abituati come siamo alla completa falsificazione del reale) si spinge fino al punto di rovesciare persino i connotati produttivi del cinema, che pretendono gli attori principali come protagonisti della storia, e gli altri come elementi di contorno. Qui accade il contrario. Silvio Orlando è 'in seconda linea', sovrastato dall'irruenza narrativa dei personaggi dei due ragazzi Rosario (Michele Raso) e Matteo (Paolo Cirio). Certo il film è sullo scontro/confronto tra generazioni, tra padri e figli, tra nord e sud, tra studio e lavoro, tra moralità e pragmaticità della vita. Come pure sul senso di responsabilità. Ma, soprattutto, e in maniera più vera e profonda, Preferisco il rumore del mare è un film sull'attenzione, sull'ascoltare, sul 'sentire' (gli altri, se stessi). Le parole qui letteralmente 'sfuggono via', sopraffatte dai suoni, dai movimenti, dalle azioni. Nessuno sembra ascoltare, sentire più niente e nessun altro. Un mondo di anime perse dietro i propri dolori (e tutti ne nascondiamo tanto, di dolore, dentro di noi), dietro le fughe necessarie dalle nostre vite troppo 'più forti' di noi. E' un mondo di estreme solitudini, di sguardi che non si incontrano, se non per brevi, intensi e suggestivi attimi.
C'è un attimo nel film che sembra come voler dare speranza, come voler preservare qualcosa che abbiamo tutti dentro ma non riusciamo ad essere. I tre ragazzi vanno a trovare la mamma di Matteo e, con una polaroid, fotografano quell'attimo di quiete, nel giardino della villa, tutti assieme, vicini per rientrare nel 'quadro' della fotografia. Curiosa questa vicinanza, sembra quasi 'teorica': sono anime separate, quelle dei ragazzi, messe assieme solo dallo sguardo unificante della macchina fotografica. Come se il cinema altro non fosse che un mezzo arbitrario per riunificare storie diverse, naturalmente separate. Eppure, in quella foto, i ragazzi sorridono, giocano, si fanno le 'corna' da dietro. Sembrano felici. Ecco quello che può essere il cinema, meravigliosamente: raccogliere nelle immagini quello che a occhio nudo non appare, il gioco, la voglia di vivere, brevi felicità. Calopresti, che si immerge nel film fino in fondo nei panni di un coraggioso prete di una comunità di ragazzi a rischio, osserva, mostra, raccoglie i pezzi ma non giudica mai, né come personaggio né come 'autore' del film. Raramente si vede nel cinema italiano un affetto così profondo per i personaggi mostrati, pur rappresentati nelle loro debolezze, persino meschinità, errori, orrori. Luigi, il quarantenne interpretato da Orlando sembra una strana prosecuzione del personaggio da lui interpretato in Fuori dal mondo, sempre cupo, immerso nelle bruttezze della vita lavorativa, senza mai avere il tempo 'vero' (cioè quello sentito, qualitativo) per gli altri, fossero la sua ormai ex moglie che è praticamente ricoverata in una villa-ospizio (ed è sintomatica questa rappresentazione del femminile del tutto 'fuori di testa', quasi impossibilitato a reggere il peso del mondo…), suo figlio Matteo, la sua 'amante' Serena, il suo collega di lavoro Massimo. Questo mondo grigio e oppressivo, reso ancor più gelido dalla fotografia livida e smorta di Luca Bigazzi, è acceso solo dalla vitalità dei ragazzi, anche se questa si manifesta in violenza, in gesti assurdi, in provocazioni, in atti apparentemente incomprensibili. Matteo e Rosario reagiscono apparentemente in maniera opposta alla vita che altri vorrebbero costruire per loro, ma dopo l'iniziale diffidenza tra i due giunge al fine una complicità vera. Calopresti ci mostra qui davvero meravigliosamente, una comunicazione fatta di silenzi, di musiche che esplodono, di gesti rapidi e secchi, di un mondo 'altro' fondato più sul 'non detto' che sulle parole vuote degli adulti. Ecco la differenza: Luigi cerca di afferrare il mondo con le parole, provando a definire comportamenti, pensieri, emozioni; Matteo, Rosario come pure Serena, preferiscono sotterrare le parole con i sentimenti, facendoli esplodere (o implodere a seconda dei casi) proprio in opposizione al vuoto rappresentato oggi dalle parole. Che, appunto, sembrano non significare più niente, se persino un prete come Don Lorenzo, che pure vive di parole per gli altri, sembra, alla fine, non aver più voce per 'raccogliere il mondo'. Preferisco il rumore del mare, sin dal titolo, evoca un mondo fondato non sulla parola, ormai svuotata di senso, ma sul 'sentire', sull'ascoltare gli altri, sulla ricerca di una comunicazione 'complessa', fatta anche (e soprattutto) di gioco, di 'furti', di rappresentazioni assurde, di paradossi, insomma di 'vita'.
Due mondi si sfiorano, nel film, e Calopresti li rappresenta con sguardi diversi, quasi opposti: gli adulti, sempre inquadrati in primi piani, fermi nel quadro, nel dominio del campo/controcampo; i ragazzi, quasi inafferrabili nel loro essere corpi, che il regista cerca di 'catturare' nell'attimo con dei continui piano-sequenza. Due generazioni, due stili, sembrerebbe. Interrogato in proposito, lo ha quasi negato… 'è solo che è più difficile dirigere i ragazzi, e il piano sequenza riesce meglio a trattenerli', ci ha detto. Una tecnica, uno stile, esclusivamente pragmatico, come dire: provate voi a far fare ripetute scene campo controcampo con dei ragazzi esordienti! Ed è meraviglioso come la necessità pratica, produttiva di un film, divenga stile, quasi un segno in più. Magia del cinema, quello vero.

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    "Preferisco il rumore del mare"

    da "Sentieri selvaggi on line", 2000

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    C’è un attimo nel film che sembra come voler dare speranza, come voler preservare qualcosa che abbiamo tutti dentro ma non riusciamo ad essere. I tre ragazzi vanno a trovare la mamma di Matteo e, con una polaroid, fotografano quell’attimo di quiete, nel giardino della villa, tutti assieme, vicini per rientrare nel ‘quadro’ della fotografia. Curiosa questa vicinanza, sembra quasi ‘teorica’: sono anime separate, quelle dei ragazzi, messe assieme solo dallo sguardo unificante della macchina fotografica. Come se il cinema altro non fosse che un mezzo arbitrario per riunificare storie diverse, “naturalmente” separate. Eppure, in quella foto, i ragazzi sorridono, giocano, si fanno le ‘corna’ da dietro. Sembrano “felici”. Ecco quello che può essere il cinema, meravigliosamente: raccogliere nelle immagini quello che a occhio nudo non appare, il gioco, la voglia di vivere, brevi felicità. Calopresti, che si immerge nel film fino in fondo nei panni di un coraggioso prete di una comunità di ragazzi a rischio, osserva, mostra, raccoglie i pezzi ma non giudica mai, né come personaggio né come ‘autore’ del film. Raramente si vede nel cinema italiano un affetto così profondo per i personaggi mostrati, pur rappresentati nelle loro debolezze, persino meschinità, errori, orrori. Luigi, il quarantenne interpretato da Orlando sembra una strana prosecuzione del personaggio da lui interpretato in “Fuori dal mondo”, sempre cupo, immerso nelle bruttezze della vita lavorativa, senza mai avere il tempo ‘vero’ (cioè quello sentito, qualitativo) per gli altri, fossero la sua ormai ex moglie che è praticamente ricoverata in una villa-ospizio (ed è sintomatica questa rappresentazione del femminile del tutto ‘fuori di testa’, quasi impossibilitato a reggere il peso del mondo…), suo figlio Matteo, la sua ‘amante’ Serena, il suo collega di lavoro Massimo. Questo mondo grigio e oppressivo, reso ancor più gelido dalla fotografia livida e smorta di Luca Bigazzi, è acceso solo dalla vitalità dei ragazzi, anche se questa si manifesta in violenza, in gesti assurdi, in provocazioni, in atti apparentemente incomprensibili. Matteo e Rosario reagiscono apparentemente in maniera opposta alla vita che altri vorrebbero costruire per loro, ma dopo l’iniziale diffidenza tra i due giunge al fine una complicità vera. Calopresti ci mostra qui davvero meravigliosamente, una comunicazione fatta di silenzi, di musiche che esplodono, di gesti rapidi e secchi, di un mondo ‘altro’ fondato più sul ‘non detto’ che sulle parole vuote degli adulti. Ecco la differenza: Luigi cerca di afferrare il mondo con le parole, provando a definire comportamenti, pensieri, emozioni; Matteo, Rosario come pure Serena, preferiscono sotterrare le parole con i sentimenti, facendoli esplodere (o implodere a seconda dei casi) proprio in opposizione al vuoto rappresentato oggi dalle parole. Che, appunto, sembrano non significare più niente, se persino un prete come Don Lorenzo, che pure vive di parole per gli altri, sembra, alla fine, non aver più voce per ‘raccogliere il mondo’.
    “Preferisco il rumore del mare”, sin dal titolo, evoca un mondo fondato non sulla parola, ormai svuotata di senso, ma sul ‘sentire’, sull’ascoltare gli altri, sulla ricerca di una comunicazione ‘complessa’, fatta anche (e soprattutto) di gioco, di ‘furti’, di rappresentazioni assurde, di paradossi, insomma di ‘vita’.
    Due mondi si sfiorano, nel film, e Calopresti li rappresenta con sguardi diversi, quasi opposti: gli adulti, sempre inquadrati in primi piani, fermi nel quadro, nel dominio del campo/controcampo; i ragazzi, quasi inafferrabili nel loro essere “corpi”, che il regista cerca di ‘catturare’ nell’attimo con dei continui piano-sequenza. Due generazioni, due stili, sembrerebbe. Interrogato in proposito, lo ha quasi negato… ‘è solo che è più difficile dirigere i ragazzi, e il piano sequenza riesce meglio a trattenerli’, ci ha detto. Una tecnica, uno stile, esclusivamente pragmatico, come dire: provate voi a far fare ripetute scene campo controcampo con dei ragazzi esordienti! Ed è meraviglioso come la necessità pratica, produttiva di un film, divenga stile, quasi un segno in più. Magia del cinema, quello vero.

    Regia: Mimmo Calopresti
    Sceneggiatura: Mimmo Calopresti, Francesco Bruni
    Fotografia: Luca Bigazzi
    Montaggio: Massimo Fiocchi
    Musica: Franco Piersanti
    Interpreti: Silvio Orlando (Luigi) Michele Raso (Rosario), Paolo Cirio (Matteo), Fabrizia Sacchi (Serena), Andrea Occhipinti (Massimo), Mimmo Calopresti (Don Lorenzo)
    Produzione: Biancafilm, Mikado, Rai, Arcapix
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    Origine: Italia, 1999.

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