PROFILI – Philip K. Dick: umano più che umano

Puntiamo l'obiettivo sull'autore che ha concepito l'incubo portato sullo schermo da Spielberg, cioè Philip K. Dick.

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Minority Report di Steven Spielberg continua a mietere successi nelle sale cinematografiche italiane, pronto a venir sostituito dal Pinocchio di Roberto Benigni. Parallelamente, il volume che propone la storia breve di Philip Dick dalla quale è tratto il film, cioè Rapporto di minoranza e altri racconti (224 pagine, 12.50 euro; pubblicato da Fanucci, editore italiano ufficiale dello scrittore statunitense), è sorprendentemente giunto al primo posto nelle classifiche di vendita della narrativa straniera (e al quinto assoluto): una sorta di record per la fantascienza nelle librerie italiane.

E poiché sembra essere scemato, finalmente, il chiacchiericcio mediatico che ha accompagnato il “lancio” del film in Italia, è arrivato il momento opportuno per puntare l’obiettivo con maggiore calma sulla figura dell’autore del racconto di riferimento: un visionario imprescindibile – e oggi amatissimo dal cinema hollywoodiano – come Philip Kindred Dick.

 

Vita e opere di un “artista di merda”.

Morto il 2 marzo 1982, alla vigilia dell’uscita del film che gli

 avrebbe dato la fama (Blade Runner di Ridley Scott tratto dal romanzo del 1968 Ma gli androidi sognano pecore elettriche?), Philip K. Dick ripercorre la medesima parabola di tanti altri importanti scrittori “di genere”, riconosciuti come autori a tutto tondo soltanto dopo la loro scomparsa. In vita, infatti, Dick gode appena della considerazione che può esser concessa a un discreto artigiano e nulla più.

Gli Stati Uniti degli anni Cinquanta-Sessanta – PKD è nato a Chicago il 16 dicembre 1928 – sono l’ambiente che vede arrivare a piena maturazione la poetica e la scrittura dickiane: in questi due decenni, lo scrittore pubblica i suoi racconti più celebri – tra i quali il Rapporto di minoranza che ha ispirato il film di Spielberg – sulle maggiori riviste di fantascienza del periodo; e approda al romanzo, sfornando a ritmi pazzeschi tutti i suoi libri più importanti (da Tempo fuori luogo e Confessioni di un artista di merda, entrambi nel 1959, a L’uomo nell’alto castello nel 1962 e I simulacri nel 1964, da Le tre stimmate di Palmer Eldritch nel 1965 al già citato Ma gli androidi sognano pecore elettriche? e a Ubik nel biennio 1968-1969).

Dopo il trasferimento a San Francisco – con tre divorzi alle spalle e un quarto matrimonio in crisi perenne – Dick inizia a fare un utilizzo sempre più regolare di anfetamine e psicofarmaci, diventandone dipendente. All’inizio degli anni Settanta, dopo numerosi esaurimenti nervosi, lo abbandona anche la quarta moglie, facendolo cadere in un periodo di profonde inquietudini e, parallelamente, di sterilità letteraria. Nel 1974, tra febbraio e marzo, lo scrittore vive l’esperienza mistica che ne segna gli ultimi anni di esistenza: si sente invaso, infatti, da una serie di visioni e suoni, sogni e voci che, tra l’altro, ispirano la cosiddetta Trilogia di Valis e il colossale diario di autoanalisi Exegesis, attraverso il quale Dick cerca di spiegarsi, fino alla morte, quanto gli è accaduto. Un infarto lo stronca, crudelmente, proprio quando sta per ottenere quel riconoscimento di critica e pubblico che ha inseguito per tutta la vita: davvero un’ironia crudele, se si considerano le sue ricorrenti difficoltà professionali ed economiche (la bibliografia dickiana è sterminata anche per il più semplice tra i motivi: PKD, da vero professionista, s’è sempre mantenuto soltanto con ciò che guadagnava scrivendo).

Temi dickiani.

Col senno di poi – cioè dopo aver conosciuto il “Cyberpunk”, la “Reality Tv”, vent’anni di cinema hollywoodiano (e non solo), i territori immateriali di Internet e della Realtà Virtuale, le campagne mediatiche che hanno accompagnato l’elezione di Silvio Berlusconi a presidente del Consiglio e la canonizzazione di Padre Pio – è possibile considerare, tranquillamente, Philip K. Dick come lo scrittore che, a partire dalla sua originalissima e provocatoria visione della fantascienza, ha segnato indelebilmente l’immaginario di fine Novecento.

L’ossessione tematica che fa da filo conduttore dell’intera sua opera può essere sintetizzata in un’unica, basilare domanda: “Cos’è reale?”. E nel suo inevitabile, spaventoso corollario: “Cos’è umano?”. Il “problema del reale” viene declinato da Dick attraverso la presenza, nei suoi romanzi e racconti, di realtà mutevoli sempre pronte a disgregarsi da un momento all’altro, non appena emerge ciò che si cela “dietro il velo” E’ ovvio – spostando l’attenzione sulla seconda domanda – che anche la realtà psichica dei personaggi di Dick è soggetta a repentini mutamenti, magari dovuti a semplici e minimi spostamenti del loro punto di vista o allo smascheramento di un impianto mnemonico artificiale. L’esempio perfetto arriva da quella che lo stesso scrittore definisce – in una bell’intervista pubblicata in appendice a Rapporto di minoranza e altri racconti – “una delle poche idee originali con cui ho contribuito alla fantascienza. […] Ossia che un tizio possa essere un androide senza saperlo”: l’innovazione al concetto asimoviano di androide appare, per la prima volta, in un racconto del 1953, Impostore, ritradotto da Fanucci sempre all’interno della recente antologia Rapporto di minoranza e altri racconti; in seguito, sarà ripresa tante altre volte, come nel romanzo che ispira Blade Runner e che apre la strada a un’infinità di film hollywoodiani su/con inconsapevoli robot umanissimi e umani robotizzati. Insomma, l’androide non imita l’uomo perché, da più d’un punto di vista, è già (più che) umano. E attraverso i “suoi” simulacri Dick “pre-sente”, negli anni Cinquanta e Sessanta, la crisi epocale della nozione di individuo e soggetto tipica dei giorni nostri.

Dick e il cinema.

I temi centrali dei libri di Philip Dick influenzano pesantemente buona parte del cinema fantastico hollywodiano a venire, dall’inizio degli anni Ottanta a tutt’oggi. Così, anche se direttamente dalle sue storie sono tratti soltanto cinque film (oltre a Blade Runner e Minority Report, Atto di forza di Paul Verhoeven, Screamers – Urla dallo spazio di Christian Duguay e Impostor di Gary Fleder), l’ombra di Dick s’allunga su molte altre pellicole recenti e, spesso, sulle intere filmografie di importanti cineasti.

Che dire, per esempio, di tanti film di David Cronenberg? Come non considerare dickiani lavori seminali quali Videodrome, M. Butterfly o eXistenZ? Un altro regista e sceneggiatore che sembra aver studiato molto bene Dick, poi, è Andrew Niccol, autore di Gattaca, dello script di The Truman Show e del nuovo e già discusso Simone (abbreviazione di “Simulation One”, a indicare una diva artificiale, sintesi della donna perfetta). Le stesse saghe di Alien e Terminator sono intrise di suggestioni ed echi dickiani, a partire dal tema dell’androide più o meno umano. “Il fatto è che Dick – scrive Franco La Polla, in un suo saggio contenuto in un volume appena pubblicato da Fanucci (Philip K. Dick e il cinema, che raccoglie gli atti di un convegno di due anni fa) – più d’ogni altro autore del genere ha avvertito, e con grande anticipo, il mutamento che già stava fermentando alla metà del secolo, il prossimo avvento della crisi dell’antropocentrismo, la nuova episteme della frammentazione, […] la nuova poetica dell’innesto fra organico e inorganico e le conseguenti, inevitabili considerazioni in ambito filosofico ed etico”.

 

E, tra i film più recenti, sembrano concepiti direttamente da un Dick redivivo Dark City di Alex Proyas e, soprattutto, Matrix dei fratelli Andy e Larry Wachowski. Nelle due pellicole sono presentate realtà illusorie e artefatte, “abitate” da persone deliberatamente tenute all’oscuro riguardo all’artificialità delle proprie esistenze, ma pronte a lottare contro i loro stessi mondi, in seguito a un puro mutamento percettivo. In particolare, in Dark City risulta pregnante l’opposizione tra processi mentali derivanti da ricordi impiantati artificialmente ed esperienze pratiche che contraddicono tali ricordi e generano confusione e impotenza.

Rispetto all’ambiguità presente nei romanzi di Dick, però, tutti questi film non fanno altro che proporre una “realtà autentica” contrapposta a quella falsa: con un’unica, possibile alternativa “reale”, dunque, a quello che s’è dimostrato un universo “artificiale”. Nei libri non è così: e bastino, come esempi, i contraddittori finali di capolavori come Le tre stimmate di Palmer Eldritch e Ubik.

Rapporto di minoranza affronta, invece, un altro tema tipicamente dickiano: quello del libero arbitrio e della predestinazione, capaci di produrre differenti linee temporali future a seconda delle azioni che si sceglie o meno di compiere. L’assunto di partenza del racconto – se si pensa all’attuale scenario politico internazionale – risulta essere di agghiacciante attualità: nella Washington del 2054 funziona una forza di polizia detta Pre-Crime, in quanto in grado d’individuare e punire i crimini prim’ancora che vengano commessi (con l’arresto di coloro che, tecnicamente, sono da considerare ancora non colpevoli). Grazie al nuovo metodo, gli omicidi sono pressoché spariti, ma la libertà individuale ha subìto considerevoli limitazioni. A rendere possibile il funzionamento del sistema sono tre “Pre-Cogs”, mutanti ritardati ma capaci di avere visioni future che i poliziotti interpretano con l’ausilio di speciali computer. Quando non c’è accordo tra tutti e tre i precognitivi, ma soltanto tra due di loro, si sviluppano due ipotesi: quella “ufficiale” derivante dal rapporto di due mutanti e il “rapporto di minoranza” predetto dal “ribelle”; quest’ultimo, però, viene immediatamente occultato per non intaccare il Sistema.

A differenza del racconto di riferimento, il film di Spielberg non sviluppa con altrettanta efficacia e profondità il tema dei futuri differenti che deriverebbero da previsioni discordanti. Anzi, nel film il rapporto di minoranza sembra quasi un elemento secondario. Molto dickiano, invece, è l’utilizzo che il regista fa della pubblicità, onnipresente e – a differenza dei vari “regimi” dittatoriali più o meno nascosti – praticamente impossibile da sconfiggere. Un altro elemento che viene meno nel film, infine, è il contrasto generazionale tra i personaggi di Anderton e Witwer, dato che il John Anderton di Tom Cruise non è certo anziano e prossimo alla pensione come il protagonista del racconto.

In definitiva, il film di Spielberg annacqua l’ambiguità e la profonda inquietudine di alcuni momenti della narrazione di Dick, proponendosi principalmente come riflessione teorica sul ruolo dello sguardo al cinema e nella vita.

 Consigli bibliografici.

Il modo migliore per avvicinarsi alla narrativa di Philip Dick è attraverso le nuove edizioni che la Fanucci sta pubblicando – dopo aver ottenuto l’esclusiva per l’Italia sull’intera opera dickiana – nella bella “Collezione Immaginario Dick”, curata da un esperto come Carlo Pagetti e arricchita, di volta in volta, da prefazioni “d’autore” come, per esempio, quella di Sergio Cofferati. Oltre a Rapporto di minoranza e altri racconti, la collana propone, finora, l’imprescindibile Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, I giocatori di Titano, Mary e il gigante, In senso inverso, il capolavoro L’uomo nell’alto castello (già noto in Italia come La svastica sul sole), E Jones creò il mondo, Deus Irae (scritto assieme a Roger Zelazny), Svegliatevi dormienti, Confessioni di un artista di merda, Noi marziani. E’ in uscita – di poco successivo all’interessante raccolta di saggi Philip K. Dick e il cinema (con interventi, tra gli altri, di Franco La Polla e Gabriele Frasca) – un altro titolo fondamentale della bibliografia dickiana: I simulacri.

Sempre Fanucci, infine, ha pubblicato qualche mese fa anche quella che è la più completa e affascinante biografia critica dedicata a PKD: l’ha scritta uno specialista come Lawrence Sutin e s’intitola Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick (384 pagine, 30.99 euro; in cofanetto assieme all’interessante video Il vangelo secondo Philip K. Dick di Mark Steensland e Andy Massigli).

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