Quel bravo ragazzo, di Enrico Lando

La sensazione ricorrente è quella di assistere a un lungo e dilatato sketch, rimodulato su scenari diversificati dall’attraversamento trasversale di un protagonista sempre uguale a se stesso

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È fenomeno ormai normalizzato dalla pratica il trasloco dei fenomeni comici di piccolo/i schermo/i nelle sale cinematografiche. Non stupisce che anche il personaggio di Luigi Luciano, in arte Herbert Ballerina, fosse atteso dai suoi estimatori in uno spazio predisposto e a lui interamente dedicato. Ed è proprio questo che Quel bravo ragazzo fa: sancisce l’allontanamento (non abbandono, sia chiaro) di Herbert dall’orbita di Maccio Capatonda, proiettando il suo sempliciotto personaggio in un mondo più grande, e ostile. La vicenda ruota infatti attorno alla decisione di un potente boss mafioso di lasciare in punto di morte il suo regno in eredità a Leone, figlio mai riconosciuto vissuto per oltre trent’anni in un orfanotrofio. Ovviamente l’ingenuità di Leone, ai limiti (molto spesso superati) della stoltezza, provocheranno una serie di turbamenti all’interno del microcosmo di guardie e ladri con il quale si ritroverà a interagire.

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ballerina3Herbert Ballerina potrebbe quasi essere una maschera dei nostri tempi, con quella sua marcata fisicità quasi parlante e quei tratti caratteriali ricorrenti, se non fosse che certi personaggi della tradizione comica nostrana sono di solito sospinti da un desiderio, una brama, un obiettivo. Il personaggio di Herbert vive invece palleggiato da un comprimario all’altro forte solo di un candore portato all’eccesso, per spremere fino all’ultima goccia di possibilità umoristica il fenomeno dell’episodico, suo terreno congeniale, senza tracciare sostanziali traiettorie di senso e (ri)lettura. E allora a poco serve rifarsi ai classici della comicità fondati sul semplice cambiamento di scenario attorno a personaggi sempre fondamentalmente uguali – come i vari film con protagonisti Totò (e Peppino), o Franco e Ciccio – e a poco serve anche guardare (decisamente) a Johnny Stecchino di Roberto Benigni, se poi non si apporta qualcosa di davvero innovativo. Tutto è funzionale, sembra, alla sola logica della trasposizione cinematografica del protagonista, dalla trama al giro di comprimari eccellenti (Tony Sperandeo, Enrico Lo Verso, Ninni Bruschetta).

Tolti i tormentoni e le citazioni filmiche (più divertiteballerina che divertenti), sono poche le trovate davvero memorabili (come la gag delle donne-pizze o il ricorrente stress che fa venire il buco in testa, o l’app iPizzo), eppure il film nel complesso risulta abbastanza scorrevole e gradevole, grazie soprattutto a un cast di tutto rispetto, che riesce a camuffare quel tanto che basta un’esile trovata narrativa di fondo. Quel Bravo ragazzo cerca di incunearsi in un filone di genere, ma maneggia un racconto dagli stereotipi un po’ datati, che lo rendono favolistica parodia di un mondo mafioso messo in scena (e parodiato) innumerevoli volte dal cinema. La sensazione ricorrente è quella di assistere a un lungo e dilatato sketch, rimodulato su scenari diversificati dall’attraversamento trasversale di un protagonista sempre uguale a se stesso, che come seduto su un treno guarda sempre con gli stessi occhi i differenti paesaggi. Ma si limita a guardare, anzi a vedere più che a osservare, intrappolato nella sua paradossale ignoranza, che gli impedisce di imparare e crescere (o anche solo di modificarsi), riproponendo in un loop irrefrenabile i suoi tormentoni da sketch episodico. E continuando a guardare fuori dal finestrino, noncurante (o inconsapevole?) sia del viaggio che della meta.

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