Quel giorno d’estate – Incontro con Mikhaël Hers

In occasione dell’uscita nelle sale italiane di Quel giorno d’estate abbiamo incontrato il regista del film Mikhaël Hers per parlare di un lavoro che racconta il terrorismo entro le mura domestiche

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Chissà in quanti, il 7 gennaio del 2015, avevano intuito che quell’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo sarebbe stato uno spartiacque per la vita futura dei francesi. Dopo di allora ci fu un altro terribile attacco, persino più letale, che vide coinvolte centinaia di persone nella sala concerti del Bataclan ed in generale la città di Parigi reagiva chiudendosi a riccio tra le proprie paure. Metal detector nei parchi, camionette della polizia sugli Champs Elysees ed una rabbia latente sfogata ogni sabato pomeriggio con indosso un gillet giallo, oppure affidando la propria scheda elettorale a chi quella frustrazione riesce a cavalcarla con spregiudicatezza.
A questi repentini sconvolgimenti della storia, il regista Mikhaël Hers risponde con Quel giorno d’estate, un film che cerca di raccontare il dramma del terrorismo tenendolo chiuso entro le mura domestiche. In occasione dell’uscita del film in Italia, abbiamo incontrato il regista per una piacevole chiacchierata.

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Quel giorno d’estate torna su dei fatti di cronaca che hanno sconvolto la Francia negli ultimi anni, ovvero i terribili attacchi terroristici a Parigi. Però hai preferito dare al film un’impostazione più intima, richiudendoti entro il recinto della vita privata.

Sicuramente all’epoca degli attentati ho subito un eccesso di immagini sui media. Mi sono detto che il mio film non sarebbe dovuto essere essere un lavoro sugli attentati, volevo raccontare una storia privata in cui naturalmente questi tragici eventi hanno influito. Ho lavorato sulla periferia più che sul centro perché se si parla dell’avvenimento in maniera centrale si capisce meglio la realtà dei fatti, le reazioni del Paese Reale.
La volontà era emanciparmi da questo eccesso di immagini per raccontare una storia più intima.

La storia di una convalescenza, la necessità di riprendersi da uno shock e sullo sfondo una Parigi che cambia per sempre. Quanto è stato utile per lei fare un film così, relazionandosi al periodo e vivendo in questa nuova Parigi?

Sicuramente si fanno film anche senza saperlo, per cercare una serenità. C’è anche questo nel film, ma nonostante la premessa tragica il mio intento era quello di raccontare una storia che fosse  comunque luminosa. È vero che c’è violenza, ma c’è anche una idea di innocenza perduta. Volevo fare un film in cui ci fosse speranza, ecco.

Quel giorno d’estate parte come una commedia lieve, fin quando c’è un momento di rottura, la violenza del terrorismo. Come a voler dire che la vita è qualcosa di imprevedibile. 

Quel giorno d'estate

Era necessario. Prima di passare al punto centrale del film bisognava affezionarsi ai personaggi. Era un dosaggio delicato da decidere perché non potevamo lasciare che il passaggio fosse troppo breve, ma nemmeno così lungo. Sicuramente il tema della violenza inaspettata che sconvolge le nostre vite è un tema su cui mi interrogo spesso, un tema che mi ha sempre toccato: certe volte sembra che vada tutto bene e invece per una fatalità tutto può cambiare irrimendiabilmente.
Io volevo raccontare la storia tra una nipote ed uno zio mai diventato adulto. L’idea era fare un film sulla paternità casuale, ma in effetti sia Amanda (la protagonista del film ndr)che lui hanno perso una figura importante.

La regia inizialmente è invisibile, ma allo stesso tempo efficacissima nel raccontare la storia. Sceglie di privilegiare il silenzio nel momento in cui si consuma la tragedia dell’attentato. Come ha concepito il suo lavoro?

Sapevo che serviva una regia trasparente per questo soggetto. Pochi elementi evidenti di regia, quasi a cancellare la mia presenza. Il silenzio innanzitutto. Vediamo l’attentato attraverso lo sguardo del protagonista, poi lui arriva sul posto e noi vediamo quello che lui vede. C’è oltre al sangue qualcosa di non completamente reale: l’immagine non è del tutto messa a fuoco o accettata dal cervello in un lasso di tempo impercettibile. Questo silenzio è una scelta estetica, per raccontare una Parigi vuota e intrappolata dal terrore. Dicono che subito dopo un attentato inizialmente si sente un silenzio irreale, pneumatico.

Amanda, la bambina che vediamo sullo schermo, è il simbolo delle nuove generazioni, cresciute dopo i fatti del Bataclan.
Secondo lei quanto tempo servirà ai millennials per potersi emancipare da quei fatti, quanto ci vorrà per loro, prima che ritornino a sognare una società pacifica?

Quel giorno d'estateCredo che i giovani abbiano già ricominciato, ma è un po’ quello che succede. C’è poi quello che privatamente uno prova. Essendo un fatto avvenuto in molti posti c’è una sorta di sentimento collettivo che viene covato. Certo è anche vero, avendo dei figli piccoli, che per loro ora è normale girare per Parigi e vedere le camionette, e per me tutto ciò è agghiacciante. Saranno anestetizzati al dolore, come loro cresceranno poi bisognerà vedere, ma in effetti questo è un fatto della quotidianità, a cui noi vecchie generazioni non eravamo abituati.

Come ha lavorato con lei e quanto spazio ha lasciato all’improvvisazione? Come ha fatto Isaure Multrier a gestire l’emozione in scene complesse come quella girata a Wimbledon?

Il personaggio principale è circondato da donne. Questo c’entra col fatto che a me piace filmare le donne. Per cercare Amanda è stato fatto un casting selvaggio fuori dalle scuole, nelle palestre. Poi sono rimasto sorpreso dal fatto che non c’era questa grande  differenza rispetto alla gestione degli attori adulti: era necessario darle fiducia, darle gentilezza intorno. Le abbiamo raccontato tutto, dovevamo creare un ambiente in cui lei si sentisse libera di raccontare le emozioni. Poi però doveva attingere alle sue corde emotive per poter restituire qualcosa. Ho scelto lei perché da una parte aveva un’apparenza molto infantile, ma anche perché allo stesso tempo era molto matura. Per quanto riguarda la scena di Wimbledon, è stata difficile perché dentro era impossibile riprendere le partite. Volevamo approfittare della cornice di un vero torneo anche per usufruire di gente vera nello stadio anziché le comparse.
Gli incontri invece sono stati ripresi in Germania. Poi abbiamo girato i primi piani, e quel lavoro lì è incredibile perché in quell’occasione in campo non c’era nessuno, quindi le emozioni restituite da Amanda erano emozioni scaturite dal suo lavoro attoriale.

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