#Cannes2018 – Rafiki, di Wanuri Kahiu

Dal Kenya arriva un’impossibile storia d’amore tra due giovani donne. Un certain regard

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Ci sono due famiglie rivali impegnate in politica e i rispettivi figli che si innamorano di nascosto. L’assunto sembra essere quello di Shakespeare, anche se qui non siamo a Verona bensì a Nairobi e i due amanti non sono Romeo e Giulietta, ma due giovani donne che vanno al liceo, Kena e Ziki. Entrambe frequentano una comunità cristiana estremamente rigida e quando la loro iniziale amicizia si trasforma in una relazione si genera una risposta violenta che coinvolge familiari e amici e finirà per allontanarle.

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Wanuri Kahiu è una regista kenyota che ha studiato alla Ucla e ha già all’attivo un paio di titoli tra lungometraggi e documentari. Si è fatta le ossa in alcune produzioni hollywoodiane e oggi è uno dei nomi di punta del nuovo cinema africano e qui si segnala soprattutto per la sua abilità di storyteller. Nonostante un inizio denso di suoni, colori e dialoghi veloci, Rafiki – che tradotto significa “amica” – non sperimenta a livello linguistico e visivo, ma preferisce “accontentarsi” di raccontare una  storia d’amore al femminile. Lo fa anche appoggiandsi ad alcuni luoghi comuni sul tema della discriminazione sociale e culturale nei confronti del diverso che a lunghi tratti ne minano sguardo ed energia. Così il film a poco a poco si trasforma. Da una prima parte che sembra quasi l’ossatura di una commedia musicale si passa a una seconda in cui il melodramma si fa amaro e cromaticamente più oscuro. In filigrana si percepisce una visione scettica sulla possibilità di cambiamento del Kenya e uno spirito di denuncia nei confronti delle istutuzioni politiche e religiose che sono forse gli argomenti prioritari per la regista africana. A Kahiu interessa fare un cinema politico in un senso leggermente più convenzionale di quanto il controcampo visionario della metropoli e la carnalità “liberata” della passione avrebbero lasciato sperare.

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