RIFF 2019 – Pryputni, di Arkadii Nepytaliuk

The Strayed racconta di un’umanità che digrigna i denti ma riesce ancora a cedere all’amore, la macchina a mano del regista ucraino pedina i personaggi fino alla totale immedesimazione

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Pryputni è un piccolo villaggio dell’Ucraina, qui i cellulari non prendono e nel cimitero ci sono solo dodici tombe. I pochi abitanti di questo luogo dimenticato formano una micro-comunità che non si è integrata con il vivere cittadino e preserva ancora una sua dimensione identitaria.
Proprio dalla città parte il viaggio di due donne, una madre e una figlia, per andare a trovare la babushka, nonna ferrigna e fiera, tanto attaccata alla sua terra e ai suoi vecchi vestiti.
Il film di Arkadii Nepytaliuk inizia mettendo subito in chiaro che viviamo in un ambiente ostile, fatto di sentimenti non corrisposti e di quotidiana aggressività.
Yura è un tassista insistente e all’apparenza molesto, rifiutato dalla donna che vuole sposare perché considerato, da se stesso e da lei, un contadino ubriacone e buono a nulla. Alla fermata del bus trova Sveta, audace ragazzetta che, insieme alla madre, lo convince ad accompagnarle al villaggio.
Il viaggio non è di quelli favolosi da road movie americano, la strada imboccata è sterrata e disagevole, il cd manda sempre la stessa musica e i tre si vomitano addosso insofferenza e nervosismo.

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In questo film tutti si urlano contro, ma tale modo di fare sembra appreso e reiterato, svelando il tentativo di un dialogo mal riuscito. I personaggi interagiscono a spintoni, Yura scaraventa la fidanzata fuori dall’auto, la nonna butta Sveta giù dalla panchina, come se questi fossero gli unici gesti maldestri per potersi avvicinare all’altro.
Il battibecco non si arresta neanche quando giungono a destinazione, anzi aumenta di proporzione nel confronto generazionale tra le tre donne. Senza tregua ci si rinfaccia torti subiti e inadempienze del passato. Eppure queste dinamiche così personali hanno un sapore universale, vi possiamo riconoscere le discussioni che nascono in tutte le famiglie, le verità taciute, i pretesti, le preoccupazioni. Il teatrino grottesco e, allo stesso tempo, così consueto, ci fa sorridere proprio perché ci appare tanto familiare.
Attorno alle tre protagoniste ruotano gli uomini, quasi tutti ubriaconi e burberi, si sparano addosso come in un far west, ma sotto sotto lasciano trasparire una tenerezza assopita. Sembra che questo linguaggio maschile, fatto di pallottole, colpi di mazza e sputi, sia il corrispettivo più violento delle urla e degli strattoni. Ci si fa del male perché si soffre, ma la violenza della mancanza genera inaspettate e sorprendenti conseguenze.

Nepytaliuk ci racconta così di un’umanità che digrigna i denti ma riesce ancora a cedere all’amore. In questo film corale, i personaggi secondari sono ben delineati e necessari a innescare le svolte che cambieranno le sorti dei protagonisti. La camera a mano è poco stabile, così come i soggetti che racconta, la camera in-segue i personaggi, resta attaccata alla nuca per non perderli di vista e sembra sempre più evidente che questa necessità di rimanere ancorati alla realtà sia oggi il linguaggio prediletto per raccontare storie.
La forza di The Strayed (titolo internazionale) sta proprio nel riuscire a rappresentare il lato dell’essere umano più scontroso, ai limiti del deplorevole. Eppure noi a quei personaggi vogliamo bene da subito, non è compassione quella che proviamo, ma totale immedesimazione, facciamo tutti parte di questa isteria collettiva che in quanto tale manifesta il nostro umano bisogno di affetto.
Piccola chicca, il finale surreale ci ricorda che la realtà è interiore e il realismo illusorio.

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