Robinù, di Michele Santoro

Soffre chiaramente di un approccio sgrammaticato. Il lavoro appare sporco, disorientante, segno di un’esperienza non collaudata e probabilmente da imputare ad una manifesta ansia di raccontare.

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Rubo ai ricchi per dare ai poveri”: tutti conosciamo lo slogan di Robin Hood, ladro dei ricchi e beneffatore dei poveri. Titolo declinato in dialetto napoletano, il Robinù di Michele Santoro, veste i panni di un altro Michele, probabilmente un alter ego del giornalista/regista che vira verso un senso del giusto e una difesa di ideali chiaramente antitetica. Michele, ventidue anni, prima arma impugnata a diciassette, ora residente nelle carceri di Poggioreale con una pena stimata a sedici anni, anni che aveva quando ottenne la prima condanna. Gode dell’arcinota fama del villain, non solo da parte di altri camorristi, ma pure di schiere di ragazze che gli dichiarano il proprio amore in esplicite lettere. Personaggio soggetto negl’anni a qualunque critica, Santoro ha sempre dimostrato, difensore del baluardo giornalistico, di tenere al concetto di informazione; il suo film, di fatti, ha ben presente l’importanza di sugellare sia il fascino che la tragedia della camorra (vedi Gomorra-la serie), in particolare le baby gang e i baby boss, definizione, l’ultima, odiata dal Michele protagonista

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Santoro soffre chiaramente di un approccio sgrammaticato. Il suo lavoro appare sporco, disorientante, segno di un’esperienza non collaudata e probabilmente da imputare ad una manifesta ansia di raccontare. 

robinu-michele-santoroI genitori dei delinquenti si dilaniano fino alle lacrime ricordando gli sbagli di figli sbandati, Fin qui, nulla da dire: è la stessa madre di Michele a riconoscere la sua posizione super partes. Il regista, ingaggiata una palese battaglia di precisione, rintraccia addirittura il fratello del protagonista, pizzaiolo a Parigi. Qui giunge la sferzata: un (casuale?) corteo di giovani parigini intenti a manifestare per il diritto proprio alla manifestazione e ostaggiati dalla polizia. Una polizia, quella francese, che ostacola il legale e una italiana che forse è troppo solleticata da un governo che sa che il pil nazionale dipende dal traffico di droga, del cossiddetto welfare criminale, chissà. Magari quella scena è la semplice incursione del caso, un caso che agisce su neonati già marchiati e posizionati sulla passerella del terrore quotidiano  perché nati nel Rione Traiano, a Forcella, a Monte San Biagio. Il fratello di Michele fugge perchè minacciato dai nemici del suo sangue che pretendono anche il suo, ma forse, con già due fratelli in prigione, lui che è il terzo può avere una via di scampo. Spesso molti di quelli nati in quei rioni l’alternativa non la vedono neanche dal cannocchiale, perrispondere ai perbenisti: perchè non fanno altro?.

Napoli vive di quello stesso terrore, ne è impregnata. Santoro, però, ne riprende solo pezzi, come se la città conservasse un tesoro nascosto. Un luogo che purtroppo vive di faide tra clan, di prostrazione per un sangue, quello del patrono San Gennaro, che ogni anno si scoglie rinnovando la speranza. Il documentario possiede chiaramente un cuore, sentito, un muscolo che è carico di musica neomelodica, di rapporti personali carichi di opposizioni di viuzze incastrate tra loro, riprese con vertigine, quasi a sollecitarne un’unione a combattere comunque. Robinù è un lavoro che sottolinea il cambiamento fervente nella Camorra, sulla facilità nel far percepire ad un ragazzo la pistola come Sacro Graal di potere, per diventare ‘OMM (uomo d’un pezzo), sul magnetismo di possedere, accostarsi e anche sottomettersi al fuoco simbolico e letterale, specie se si tratta di un kalasnikov. Santoro conosce il suo materiale e fa proprio un primitivismo registico, essenziale per assorbirne il contenuto.

Regia: Michele Santoro

Distribuzione: Videa

Durata: 91′

Origine: Italia 2016

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