ROCKY BALBOA STORY – Rocky II, di Sylvester Stallone

Il primo seguito consegna Stallone al rango di autore totale e riflette sul rapporto tra l’uomo e l’icona, fra una storia calata negli affetti quotidiani e una regia che pensa già in senso mitico

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La saga di Rocky è uno strano e complesso organismo, dove ogni parte è integrata al tutto ma resta abbastanza autosufficiente da esprimere una particolare istanza: nel caso di Rocky II, l’intento è doppio. Da un lato assecondare la canonica legge dei seguiti, che rivisitano l’originale ampliandone le possibilità espressive e spettacolari; dall’altro fornire il necessario volano per possibili nuovi approdi. In questo senso, il film può essere visto innanzitutto come revisione (auto)critica, attraverso la quale Sylvester Stallone fa definitivamente suo il racconto, assumendone anche la regia – dopo le prove generali dietro la macchina da presa compiute un anno prima con Taverna Paradiso.

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Stallone scrive, dirige e interpreta e si interroga sulla sostanza di un personaggio che va già assumendo contorni leggendari ma è ancora uomo, ricacciato nella polvere delle proprie mediocrità dopo essere stato per una notte in cima al mondo. Un’oasi di felicità è rappresentata nuovamente dal rapporto con Adriana, qui destinata a diventare moglie e madre e ad approfondire un rapporto che sembra basato sulla semplice e piccola gioia di stare insieme, senza pretendere cambiamenti l’uno dall’altra. Questa “normalità” del rapporto è l’elemento di coesione che va in controtendenza rispetto a una società dove si richiama sempre il rispetto delle regole (quelle sindacali, quelle mediche), in cui l’uomo Rocky deve dimostrarsi figura produttiva, magari attraverso campagne pubblicitarie che però il personaggio avverte come deformanti del suo vero io.

Qui la saga elabora uno dei suoi spunti più moderni e originali, ovvero la capacità di riflettere sulle dinamiche della società-spettacolo, attraverso un conflitto fra l’uomo e l’icona che si fa radiografia dello spostamento dalla narrazione-verità della New Hollywood a quello che sarà il cinema americano a seguire (il film è del 1979, con i temibili anni Ottanta che già incombono). Rocky II diventa così una

rocky2matrimonionarrazione complessa che ossequia e allo stesso tempo mette in crisi le caratteristiche di questo momento di ridefinizione del linguaggio: cerca ancora la sostanza umana che rende Rocky così amato dalla sua gente – con i cronisti televisivi che non a caso si chiedono il motivo di tale empatia e i bambini del quartiere che lo accompagnano in un simbolico abbraccio durante la corsa d’allenamento per la città; ma allo stesso tempo riscrive i codici visivi del precedente capitolo in un’ottica più direttamente spettacolare e già proiettata nel decennio a venire.

L’intento riesce attraverso la saldatura che si viene a creare sul ring: l’ascesa al titolo è infatti legittimata da una dimensione privata e personale solida, dove Rocky vuole allo stesso tempo sia la vittoria che il conforto e il sostegno morale della moglie – in un possibile flash-forward con l’ultima derivazione di Creed, l’ascesa al podio del campione trova una sponda nella lotta per la vita di una persona amata, segno di come certe dinamiche sono e saranno sempre radicate in profondità nella storia.

E, allo stesso modo, la durezza della sfida che, come nel primo capitolo, è uno scontro di corpi di carne che avvertono ogni colpo con sangue e lesioni varie, si fonde con la plasticità di una regia che pensa in senso estetizzante: lo sguardo autoriale di Stallone è diverso da Avildsen, le tinte del ring sono più sfumate, la luce è maggiormente soffusa, le inquadrature sembrano meno “rubate” dal contesto circostante. Stallone non cerca di ritrarre la realtà, ma ne crea una sua che è costruzione di un archetipo mitico, dove i gesti sono solenni, i rumori sono enfatizzati e i ralenti sospendono la dimensione temporale in uno scontro infinito, sino all’esito più felice che è già proiettato a una saga seriale. Manca ancora quell’assolutismo iconico che porterà a creare avversari-orco come nei successivi capitoli, colorando la saga di tinte da fumetto, ma i semi sono già piantati e l’urlo finale in direzione di Adriana è orma definitivamente destinato a entrare nell’immaginario globale – peraltro da qui in poi con la voce italiana di Ferruccio Amendola, che sostituisce Gigi Proietti, anche se si lascia indietro l’incredibile performance di uno Stallone che gioca sui ritmi del corpo in accordo con la cadenza delle battute, vedere in originale per credere e per capire perché Rocky Balboa resta il suo personaggio più importante.

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