#Roma FF11 – The Birth of a Nation, di Nate Parker

La lucidissima decisione a monte di “rubare” il titolo fondativo della retorica hollywoodiana per poi risemantizzarne il potere mitopoietico… si infine rivela la trovata più straordinaria del film

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The Birth of a Nation. La lucidissima decisione a monte di rubare il titolo fondativo della retorica hollywoodiana per poi risemantizzarne il potere mitopoietico creando istantaneamente attesa spasmodica nel pubblico, beh… si rivela a conti fatti la trovata più straordinaria dell’operazione. Perché approcciarsi al film di Nate Parker significa innanzitutto entrare in una galassia di segni, ossia avvicinarsi a un immenso pre-testo: l’ambiziosissima volontà di fare il film definitivo sullo schiavismo in America proprio in un momento storico di nuove fortissime tensioni razziali, i sette anni di scrittura e produzione, l’indipendenza produttiva rivendicata; e poi il trionfo di pubblico al Sundance, gli echi di film-da-Oscar nel post #oscarsowhite, l’acquisizione milionaria (un record per un film indipendente) da parte di Fox Searchlight, infine il passato giudiziario del regista che improvvisamente torna a perseguitarlo mettendo in pericolo la ricezione dell’opera. Sì: tutto questo è veramente un altro film. Insomma a poco meno di un anno dalla prima proiezione ufficiale The Birth of a Nation ha già creato un mondo, un solido immaginario e un’aura palpabile che lo circonda, elementi forse molto più interessanti da analizzare rispetto allo stesso film.

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birth2Ma veniamo al testo, dobbiamo, a un certo punto. Perché Nascita di una nazione non è solo un titolo provocatorio, ma è anche una forte dichiarazione di intenti: raccontando la vicenda biografica di Nate Turner – figura controversa della storia americana, lo schiavo-predicatore che nella Virginia del 1831 fece partire la prima scintilla rivoluzionaria nella coscienza civile di un popolo, per essere poi impiccato con l’accusa di aver ucciso molti uomini bianchi –, il quasi omonimo regista Nate Parker vuole ri-appropriarsi nel 2016 delle armi retoriche hollywoodiane che proprio l’altrettanto controverso e seminale film di David W. Griffith ha istituito (in quel lontano 1915) come potentissimo dispositivo ideologico. Il giovane regista afroamericano non vuole minimamente rompere i codici o creare crepe dando vita a nuove forme, come accadeva con Mario Van Peebles (negli anni ’70) o Spike Lee (negli anni ’80). Al contrario: vuole riprodurre tutti i codici condivisi dalla tradizione hollywoodiana per ribaltarli di segno restando sempre all’interno della grande forma. I modelli diventano allora il grande racconto epico alla De Mille, l’action barocco e spirituale alla Mel Gibson o il dramma storico agiografico alla Edward Zwick (che compare tra i produttori esecutivi del film). Parker orchestra un arco di trasformazione del personaggio che traccia le linee riconoscibili del racconto di formazione americano (il bambino predestinato e guidato dai fantasmi africani dei suoi avi), passando dalla love story classica all’azione violenta e arrivando infine alla parabola cristologica che lo avvicina idealmente a 12 anni schiavo.

birth3E allora: la vicenda dello schiavo Nate e del suo padrone Samuel Turner, l’avvicinamento alla Bibbia, i primi sermoni conciliatori e poi quelli che polarizzano la rabbia repressa, la brutale e sadica violenza schiavista e poi la shoccante e vendicativa esplosione violenta degli schiavi insorti, persino la creazione di un singolo personaggio-nemico che metaforizzi la lotta per la libertà dall’infanzia all’età adulta… insomma siamo di fronte a una babele di cliché ben congegnati, ma francamente poco interessanti rispetto alle premesse da cui il film parte. Ecco: Parker si dimostra un cineasta più audace che bravo e il suo film diventa molto più importante che riuscito. Perché dopo una prima parte dove questo architrave retorico regge a stento il peso delle ambizioni, pian piano ogni complessità si sfarina, ogni conflitto viene eccessivamente semplificato e rapidamente “chiuso” in una spasmodica tensione estetizzante. Con soluzioni di regia decisamente stantie che trovano sempre il referente adatto: la lacrima di Denzel Washington in Glory – Uomini di Gloria, la musica epica che enfatizza i discorsi di Mel Gibson in Braveheart o le lotte tribali scorsesiane che insanguinano il terreno di Gangs of New York. Se ci attenessimo strettamente al film non ci sarebbe molto altro da dire, ma è di nuovo il contorno di questa nascita di una nazione a intrigare anche dopo la visione. Ossia tutta la sua dirompente (e un po’ ambigua) carica simbolica, tutto il suo provocatorio portato di tensioni sopite che riescono comunque a balenare nel film perché colte fuori dal testo (nel tessuto sociale e nell’immaginario popolare americano) in un consapevole e imprescindibile pre-testo. Usciti dalla sala, poi, che lo si analizzi come un film riuscito o meno, bello o brutto, appassionante o noioso, reazionario o rivoluzionario, ha forse poca importanza. Abbiamo visto sul grande schermo (un altro) The Birth of a Nation: parliamone.

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