Roma Termini, di Bartolomeo Pampaloni

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Primo lungometraggio del trentaduenne autore fiorentino, presentato allo scorso Festival di Roma. Documentario che racconta la stazione più frequentata d’Italia, attraverso i suoi abitanti muniti di cartoni e coperte. Suoni reiterati, versi esasperati, la stazione è la giungla moderna, contesto che si fa contenitore attraente, lasciando emergere transiti tra luci, ombre e gradazioni.
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Primo lungometraggio del trentaduenne autore fiorentino, uscito dal Centro Sperimentale di Roma e formatosi come regista a Parigi, dove realizza i primi cortometraggi e lavora su diversi set da videoassist. Esce in sala il documentario Roma Termini, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2014 nella sezione "Prospettive Italia", ricevendo la Menzione Speciale. Altra interessante e riuscita opera prima italiana, che va ad arricchire uno stile e un genere cinematografici ormai decisamente riconoscibili. Stazione centrale di Roma, principale stazione d’Italia: 480.000 passeggeri in transito ogni giorno. Tra tutta questa gente, nascosto in mezzo alla folla, vive un gruppo di uomini e donne per i quali la stazione non è un punto di passaggio, ma un luogo di vita. Roma Termini diventa allora un'immensa anonima abitazione, una città nella città che ospita queste persone e le aiuta a trovare un modo per sopravvivere senza niente. Quattro uomini, quattro storie di persone in caduta libera, che, giorno dopo giorno, si ritrovano sempre più ai margini della società. Svanire lentamente, diventare invisibili: non più Stefano, Angelo, Tonino, Gianluca, ma solo un altro, anonimo, clochard. Opera in equilibrio precario tra astrazione e crudezza, tra attimi sospesi di poesia e immersioni in apnea nel cinema-verità, imbracciando una telecamera e niente più, cercando e trovando la complicità di chi ha voglia di parlare, esprimersi, pur segnato dall’esistenza per sempre. L’intimità è mostrata a volte senza pudore, sui binari di un’opera fruita in condizione di distrazione. Suoni reiterati, versi esasperati, la stazione è la giungla moderna, contesto che si fa contenitore attraente: si ricercano le emozioni, l’empatia immediata. Si afferma un nuovo edonismo: la stazione non è solo un semplice ingranaggio, ma è modellata dai sogni e dai desideri dei mega cartelloni pubblicitari, da ombre in corsa per una destinazione. A primo impatto, il documentario potrebbe sembrare poco immerso nel caos del luogo, dando l'impressione di eccessivo controllo espressivo. Ma è solo la clandestinità delle riprese (Termini difficilmente rilascia permessi) a scardinare l'immediatezza dello sguardo, mai totalmente libero di posarsi sulla scena per carpirne ogni segreto.
 
 
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La stazione, forse più di ogni altro luogo urbano, si offre come superficie sensibile, su cui tutto si posa, senza mai aderirvi. Le sue sensazioni, i suoi odori, i suoi rumori costituiscono una teatralità quotidiana che la trasforma, nel senso forte della parola, in oggetto animato, materialità dotata di vita.
Il regista lascia la speranza del ritorno ad una vita normale combinarsi con il ritorno delle tenebre marmoree, distese su un cartone, avvolte in coperte sempre troppo corte. È tutto un riflesso e di riflesso nella “vetrinizzazione” moderna. Termini è una vetrina trasparente, reticolo denso del mondo fisico e sociale, segnato da un’infinità di impulsi, una molteplicità di motivazioni. Termini si fa ricettacolo di sonorità spezzate dalla quotidianità, voci del provvisorio, del transitorio. Si cerca l’attimo fuggente, indugiando sui volti, la teatralità dei corpi, sul non-finito, lasciando emergere transiti tra luci, ancora ombre e gradazioni. Roma Termini si fa visionaria perché proiettata alla partecipazione. Visionaria perché capace di filtrare il mondo fuori attraverso giochi di prossimità (come il barbiere barbone ad un pelo dalla stazione) e di conflitti (come i 50 centesimi elemosinati alla mdp), agendo su noi viaggiatori, transitando da un punto all’altro con libertà. Sottraendosi ad ogni grammatica lineare, dipingendo processi incompiuti. È sintagmatica: sintassi plurale, fatta di tragitti incoerenti. Non è solo visione, ripresa della vita, in cui la distanza dissiperebbe la mobilità nello sguardo. E’, appunto, partecipazione che offre vie possibili, anche di cadute nel baratro, dispiega archivi di ipotesi e di tracce. Lo sguardo è spaesato, decentrato e sceglie le figure dell’erranza e dello sconfinamento, come il piscio versato nella notte.
 
Regia: Bartolomeo Pampaloni
Origine: Italia/Francia, 2014
Durata: 79'

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