#RomaFF10 – Filmstudio Mon Amour, di Toni D’Angelo

D’Angelo sceglie la formula del racconto in prima persona, con la sua voce narrante a inseguire un percorso interiore che diventa viaggio sentimentale all’interno dei mille umori della città di Roma

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Il Filmstudio è stato spesso usato come argomento di campagna elettorale, per poi essere abbandonato anche dalla stessa sinistra che si era “appropriata” della sua battaglia. In realtà il Filmstudio è di tutti, un’oasi felice in un deserto culturale. È la sala dove i giovani facevano file anche lunghissime per vedere i film di Alberto Grifi. Dieci anni fa, quando studiavo cinema all’Università, le rassegne su Truffaut, Antonioni, il Noir, facevano puntualmente il tutto esaurito in sala. Oggi invece è al limite delle risorse, boccheggia. In un Paese del genere, che fa spesso confusione o dimostra una evidente miopia su chi e cosa dovrebbe essere considerato e difeso come bene comune da sostenere a tutti i costi, credo sia dura pensare di poter avere la giusta attenzione dalle istituzioni per una proposta culturale di valore. Toni D’Angelo su Sentieri Selvaggi Magazine, n.3

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Il grande affetto e il legame importante tra Toni D’Angelo e il Filmstudio, che vide in programmazione il suo bel documentario Poeti, vive nel nuovo lavoro del regista soprattutto come passione cinefila, archivio in corso d’opera e magazzino vivente della storia nascosta del movimento indipendente, sperimentale e più integralista, da Grifi a Mekas a Straub passando per gli eventi più classicamente d’autore come i celebri exploit di Moretti e Wenders.
Alle immagini d’archivio con spezzoni di interviste dell’epoca e istanti delle sale piene del Filmstudio nel corso dei decenni fanno così da contrappunto esplosivo frammenti di opere trasversali e avanguardiste firmate proprio dai quei campioni del cinema più inafferrabile e decostruito, zapping illuminante su di una produzione cancellata dalle storiografie accademiche e ufficiali, che invece nel Filmstudio si poteva e si può incrociare ed affrontare con tutto l’orgoglio degli schermi e delle poltrone della sala in via degli Orti D’Alibert.

Per tenere insieme le suggestioni, D’Angelo sceglie la formula del racconto in prima persona, con la sua voce narrante a inseguire un percorso interiore che diventa viaggio sentimentale all’interno dei mille umori della città di Roma, e alterna tutto con chiacchierate insieme a registi, artisti, critici cinematografici e testimoni del periodo di maggior fervore della sala (Moretti, Verdone, Taviani, Aprà, Fofi…) tenute insieme dal filo cronologico tessuto da una delle storiche anime del cineclub, Armando Leone, vera e propria seconda firma del documentario.
Il risultato finisce paradossalmente così per essere più istituzionale e ingessato di quanto la vicenda militante dell’avamposto trasteverino potesse ispirare, a una lettura in chiave di baluardo di resistenza anche politica a certe logiche culturali (che qui risalta soprattutto nel ritratto del fronte femminista di Annabella Miscuglio) si preferisce l’almanacco di aneddoti e ricordi anche abitati di una certa forza.

Al lavoro sembra in questo modo mancare dolorosamente un pezzo, e tutta la tirata finale di anatema nei confronti dei cinefili nativi digitali che disertano le sale a beneficio della pirateria online sembra contraddire mostruosamente gli assunti, le pratiche e le convinzioni sul cinema di molti degli artisti della sperimentazione che proprio il Filmstudio ha contribuito a difendere e far conoscere.
Sfuggono a questa prospettiva museale alcune lucidissime parole degli interpellati da D’Angelo e Leone, come ad esempio le riflessioni sempre vertiginose di Bernardo Bertolucci, il senso esistenziale dell’indipendenza secondo Tonino De Bernardi, la prospettiva centrale di Roberto Silvestri, per cui quello che manca non è la consapevolezza nei giovani appassionati quanto un legame con certe esperienze fondamentali del passato che proprio i protagonisti di quelle stagioni non sono stati in grado di trasmettere, affidare, tramandare alle generazioni successive.

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