#RomaFF11 – Richard Linklater: Dream is Destiny, di Louis Black e Karen Bernstein

L’opera del regista texano, ne esce rafforzata da questo documentario, e il primo impulso che viene dopo i titoli di coda è quello di chiudersi in una stanza e rivedersi i suoi film

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Per chi ha visto crescere la propria passione cinefila seguendo passo dopo passo, tra alti e bassi, la filmografia di Richard Linklater è un po’ difficile scendere a patti con lo scorrere degli anni e con l’evidenza anagrafica che Linklater oggi ha già 56 anni. È insomma un cineasta con alle spalle 17 o 18 film, che ha delineato un mondo, forgiato un proprio pubblico, sfiorato un Oscar, e che ormai viene considerato autore con la A maiuscola anche dall’establishment hollywoodiano. Lui questa fama un po’ la nega. Dice apertamente di aver sempre voluto fare i “suoi” film senza scendere a compromessi o dirigere opere non tratte da sue sceneggiature – eccezion fatta dell’ottimo School of Rock.  Anche con il recente Tutti vogliono qualcosa, successivo al celebrato Boyhood e forse anche migliore, continua a dimostrare una propensione per il racconto giovanilistico, generazionale e vagamente autobiografico tipica di un cineasta esordiente, che difficilmente ci verrebbe da immaginare abbia varcato il giro di boa di una carriera coerente, molto personale e affascinante nel suo complesso ben più che nei singoli episodi, alcuni dei quali comunque decisamente notevoli. Louis Black e Karen Bernstein ne sono consapevoli e in questo bel documentario di 90’ si concentrano moltissimo sulle tappe più importanti dello sceneggiatore e regista texano. Slacker su tutti. 1991. Girato a Houston con budget ridottissimo e senza permessi. Opera centrale per raccontare la X Generation e il cinema indipendente americano tra la fine degli anni 80 e inizio anni 90, quello che in un decennio (1986-1995) sfornò il meglio del cinema d’autore contemporaneo a stelle e strisce: Spike Lee, Gus Van Sant, Steven Soderbergh, Ben Stiller, Todd Haynes, Paul Thomas Anderson e appunto Linklater, che infatti proprio qui a un certo punto confessa: “Sono stato fortunato, sono nato nel momento giusto per fare cinema in America”. E poi gli altri passaggi obbligati, come il film per la Major girato e pensato come un coming of age negli anni ‘70 – Dazed and Confused (1993) amato dalla critica e maltrattato dalla Universal – la trilogia dell’amore e dell’alba, amatissima dal pubblico di mezzo mondo, concepita e vissuta insieme a Ethan Hawke e Julie Delpy, l’esperienza sperimentale e rigenerante del rotoscope in Waking Life (2000) e A Scanner Darkly (2006) fino all’impossibile film di una vita durato 12 anni, Boyhood appunto (2014).

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Dream is Destiny riesce a non rimanere invischiato nel pericolo di una celebrazione accademica o storicizzata. Da un lato perché l’opera di Linklater vive di indipendenza e di una prolificità creativa che ne impedisce qualsiasi tendenza archivistica, dall’altro perché Black e Bernstein sono molto bravi nel concentrarsi in primo luogo nel processo creativo e sul metodo Linklater quasi a prescindere da una lettura critica dei suoi film. Per una volta un documentario fa semplicemente quello che dovrebbe fare qualsiasi tipo di omaggio a un cineasta: raccontare un uomo e un artista dentro i suoi sentimenti, i sogni e la quotidianità della passione. Dream is destiny è un ritratto audiovisivo in cui emerge in primo luogo l’umiltà del lavoro di Linklater. È sottolineata soprattutto nell’esercizio continuo della scrittura, autentico punto di partenza e di arrivo dello stile e delle contaminazioni culturali dell’autore. Improvvisamente qui diventa chiaro come Boyhood non sia un film sullo scorrere del tempo dentro le immagini e davanti agli occhi dello spettatore, quanto un fluviale romanzo di formazione nel pieno della tradizione letteraria americana. Insomma l’opera di Richard Linklater, ne esce rafforzata da questo documentario, e il primo impulso che viene dopo i titoli di coda è quello di chiudersi in una stanza e rivedersi i suoi film. E non è poco.

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