#RomaFF12 – Cabros de mierda, di Gonzalo Justiniano

Il regista cileno ricostruisce un episodio della storia recente del Paese, attraverso immagini d’archivio, pezzi di finzione, sguardi stranieri e personaggi che fanno della lotta un atto quotidiano

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Cile del 1983, dittatura di Pinochet, baraccopoli “La Victoria”. Gladys (Natalia Aragonese), detta la “francesita” (la piccola francese) – una delle tante donne che lottano in segreto in mezzo a un contesto ostile – parla in primo piano con lo sguardo fisso nella macchina da presa. L’immagine è in bianco e nero, sfocata, con interferenze, sporca. Non sappiamo chi sia l’interlocutore, per quale motivo la riprende, cosa c’è fuori campo; capiamo soltanto quanto sia arrabbiata, triste. Ha 32 anni ma la stanchezza di qualcuno più anziano, più vissuto, come se tornasse da un percorso pieno di delusione e oblio, che ha visto già il finale del film. Una dimensione dove i soliti sospetti, i “cabros de mierda”, sempre vincono la partita.

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Cabros de mierda piazza Gladys come centro gravitante della storia e la fa diventare un corpo cinematografico che allo stesso tempo si rende eroina, vittima, bandiera, vita, morte, simbolo di lotta e poi un ricordo in bianco e nero, come tanti altri. Come se volesse ricostruire la memoria visiva di un paese frammentato – con pezzi di archivio e fotografie, immagine fisse e in movimento, finzione e realtà, storie sospese e altre finite prematuramente – il regista cileno Gonzalo Justiniano (Amnesia, Caluga o Menta, B-Happy) riprende la via che aveva preso in mano sin dal suo primo film (Hijos de la Guerra Fria, girato in piena dittatura) e che ormai è ricorrente nel Cinema Cileno; quella che insiste in modo quasi testardo sul risveglio della Memoria attraverso l’immagine, perché riconosce nel cinema una delle poche armi di lotta ancora potente, massiccia, perenne, legittimata. Forse, tutto ciò che ci resta.

danielcontesseMentre “La Victoria” entra in ebollizione e costruisce in modo silenzioso una rete sovversiva pronta ad alzarsi in qualsiasi momento – come tante altre baraccopoli allo stesso tempo, nella stessa città – il mondo protetto di Gladys, quello delle vecchiette che chiacchierano fuori casa, i bambini senza genitori e le cucine comuni, verrà sconvolto con l’arrivo di Samuel Thompson (Daniel Contesse); lui è un giovane missionario americano, un “curita gringo” (prete gringo), che si trasferisce da Gladys per portare la “parola di Dio”, la “buena nueva“, ai marginali del cosiddetto terzo mondo. Ecco il paradosso più palese ma anche uno dei punti d’interesse del film: Samuel, che ha trascorso tutta la sua vita immerso nella “America profonda”, nativo del paese che finanziò il Colpo di Stato e aveva il rapporto più stretto con il governo di Pinochet, è convinto di poter aiutare queste “anime perse” a trovare la pace e la forza che è stata loro tolta. Come se fosse un conquistatore moderno, la sua impresa morale è anche fatta di registi fotografici e audiovisivi, che all’inizio nascono da una volontà meramente testimoniale ma poi costruiscono un altro livello di relazione; l’unico modo possibile di raggiungere una realtà ignota che finirà per sfuggire dello schermo e diventare multidimensionale.

La scoperta di Sam segue un percorso che, in un certo senso, potrebbe avvicinarsi a quello di un cileno qualsiasi, o un militante, oppure a quello di tutto un popolo: passa dall’ignoranza all’incredulità, alla paura paralizzante, al nascondersi, dopo al ritrarsi in silenzio per poi prendere la lotta con le proprie mani. Anche se questa lotta verrà dimenticata, oppure finirà per dissolversi nell’oceano.

Lo sguardo di Sam si accoppia a tutti quelli che costruiscono il racconto, a quello di Gladys,cabrosdemierda2 delle donne della comunità (tutte loro attrici non professioniste, abitanti di “La Victoria”) che trascorro la giornata giocando a carte, dei bambini che vengono inquadrati in primo piano nel loro pianto scatenato, degli uomini che trascorrono il tempo nel bar “Hollywood” sognando di riprodurre in Cile un mondo che si assomigli all’America, del piccolo Vladi, che con le sue domande sulla religione, battute riguardo al nonno sparito e passione per la musica degli Inti-Illimani, diventa uno dei personaggi più forti e lucidi del film.

In un modo o in un altro, tutti loro fissano lo sguardo in macchina, senza paura, sfidando la linea divisoria tra verità e finzione, tra favola e incubo, con la consapevolezza che le risorse del cinema non si esauriranno mai, proprio come la nostra Memoria. Come se si trattasse di un film neorealista che si alza dopo la distruzione totale e diventa ancora più forte, perché riconosce nella precarietà la sua risorsa più potente. 

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