#RomaFF12 – O filme da minha vida (The film of my life), di Selton Mello

Il regista brasiliano paga il dazio di molti colleghi della sua generazione: la sudditanza accademica solo a tratti genuinamente romantica con cui si guarda, nostalgicamente, al cinema del passato.

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Classe 1972, Selton Mello è uno dei nomi nuovi del cinema brasiliano. Già attore per la televisione e per il grande schermo, ha esordito dietro la macchina da presa nel 2008 con Feliz Natal. Qui, alla sua terza regia, si confronta con un adattamento del romanzo A distant father, dello scrittore cileno Antonio Skarmeta. Il racconto è ambientato nella Serra Gaucha brasiliana tra gli anni 50 e i 60. Abbiamo un giovane professore che si confronta con il fantasma del padre, un francese (interpretato da Vincent Cassel) che un giorno ha abbandonato la famiglia per tornarsene in Europa. O almeno è quello che crede il protagonista Tony Terranova, che insegna proprio francese in un collegio e ha un po’ l’aspetto di Antoine Doinel. Poi un giorno la visione in un cinema di città di Fiume rosso di Howard Hawks gli cambierà la vita, riscoprirà con un colpo di scena la figura paterna e finalmente arriverà anche l’amore per la coetanea Luna. Sembra davvero un film della nouvelle vague, con l’omaggio al cinema americano classico e i volti dei giovani attori che sarebbero stati perfetti in un film di Truffaut. Del resto è un film che parla del rapporto coi padri ed è evidente che per Mello si tratta soprattutto di confrontarsi con un immaginario cinefilo che già dai titoli di testa mette dentro la grana vintage del cinema muto e il treno dei fratelli Lumiere. Tanto stile. Anche troppo. Perché dietro la saturazione di immagini estetizzanti che cercano di flirtare con il cinema di Bertolucci o Wong Kar-wai – con cui si consuma anche un’affinità musicale anni 60 e soprattutto il gusto per la ricostruzione d’ambiente – c’è la storia abbastanza semplice di un giovane che deve diventare adulto. E certamente Mello non fa un brutto film, ma non sa decidere se concedersi fino in fondo alla forma o lasciare qualcosa anche all’anima di quello che vuole raccontare. È un bel dilemma che se risolto porta spesso il talento ad assaporare l’unicità dei grandi. L’altra faccia della medaglia è l’ambizione tronca, l’appagamento di superficie. Quando si cerca una propria strada la storia del cinema può essere d’aiuto o rivelarsi un impedimento all’emozione. Ma in verità il quarantacinquenne regista brasiliano sembra pagare lo stesso dazio di molti colleghi della sua generazione, soprattutto americani ed europei: la sudditanza accademica – e solo a tratti genuinamente romantica – con cui si guarda, nostalgicamente, al (cinema del) passato.

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