#RomaFF12 – Prendre le large, di Gaël Morel

Pur rimanendo nelle coordinate del dramma controllato, Morel parte dalla lucidità del cinema di fabbrica francese, perscompaginare le coordinate economiche e geopolitiche

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Edith è a un bivio. Da anni operaia in una fabbrica tessile, si trova di punto in bianco messa alla porta. Lo stabilimento in cui lavora sta per chiudere e il suo destino sembra già segnato: il licenziamento, la liquidazione, una vita da reinventare a un’età non proprio più tenera. Però le viene prospettata, “a titolo informativo”, un’altra possibilità: seguire la via della delocalizzazione e trasferirsi nello stabilimento che prenderà in carica la quota di produzione, a Tangeri, in Marocco. Ovviamente rinunciando alla liquidazione e accettando una rimodulazione della paga sugli standard dei salari marocchini. Roba da non pensarci neppure. E, invece, Edith sceglie di tenersi il lavoro e andar via, in un altro luogo, forse nella prospettiva di un nuovo inizio. Già, perché non c’è quasi più nulla a trattenerla in Francia, a parte un figlio che si è stabilito altrove, a Parigi, e che di certo non contempla la madre nei suoi progetti di vita. Dunque, il lavoro o la morte… vero, quella “metaforica” della solitudine, che forse è mendo pressante e atroce della fame, ma che porta i segni di una disperazione altrettanto insopportabile…
Ecco, bisognerebbe capire innanzitutto qual è il valore politico di Prendre le large, su cosa interviene e cosa sta raccontando di questo mondo, al di là dell’esperienza personale di una donna a cui viene regalata l’intensità trattenuta, fragile e severa al tempo stesso, di Sandrine Bonnaire. Sì, c’è l’ovvia, indifferente arroganza dell’industria, di chi possiede il capitale e lo gestisce. C’è la servitù del lavoro, differente in Europa o in Maghreb, ma poco importa, comunque legata alle catene del sopruso e della paura. C’è la situazione della donna nel mondo musulmano, alle prese con un fondamentalismo strisciante. Ma questi sono dati già acquisiti, in qualche modo, e non è sull’analisi che Morel vuole soffermarsi. Semmai, con la sua storia, sta provando a immaginare una sorta di contrappasso. Per Morel, Gaël è una specie migrante al contrario, una donna che lascia la propria terra per una vita migliore, pur se il paese in cui trasferisce sta “messo peggio”, offre meno opportunità economiche e meno garanzie. E quindi c’è tutta la parabola dello straniero in terra altrui, non voluto, mal visto, persino temuto. L’ostilità delle altre operaie, il lavoro senza garanzie e senza tutele, la fame, la deriva della disperazione. Persino, il crimine, seppur messo in scena, manipolato, artefatto. Ovviamente tutto ciò è solo una traccia. Ma, pur rimanendo nelle coordinate del dramma controllato, Morel parte dalla lucidità del cinema di fabbrica francese, per provare a scompaginare le coordinate economiche e geopolitiche con una sottile vena anarcoide, al di là delle “approfondite” riflessioni e delle istanze “sindacali”. L’istinto è analfabeta… E prendere il largo presuppone una scarsa conoscenza dei contratti. Come insegna Edith…

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