#RomaFF13 – Boy Erased, di Joel Edgerton

Edgerton inietta sotto la pelle di un racconto “di impegno” una sottile tensione che sembra sprigionare un’energia oscura da thriller. Per tornare, infine, a una storia di “gente comune”

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Jared Eamons, figlio di un pastore protestante dell’Arkansas, è un giovane come tanti altri. Ama lo sport, ama scrivere e si iscrive al college per seguire le sue passioni. Ma nasconde un “peccato” imperdonabile agli occhi del Signore: prova attrazione per gli uomini, seppur tutto sia ancora inespresso, irrealizzato. Finché non subisce la violenza di un ragazzo conosciuto al college. Quando la storia salta fuori, la famiglia decide di affidare Jared a un“centro di recupero” per omosessuali, chiamato Love Action, in cui si mette in pratica un’improbabile e terribile terapia di “conversione”.

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Dopo The Gift, Joel Edgerton decide di cambiare registro, ispirandosi al libro di memorie e di inchiesta di Garrard Conley, che, a partire dalla sua esperienza personale, descrive la portata di un fenomeno assurdo, ma più diffuso e concreto di quanto si ossa immaginare. Una folle promessa di guarigione, che fa leva su una realtà chiusa e bigotta, su principi religiosi che accecano, ma che soprattutto è un cinico espediente per estorcere soldi alle famiglie “perbene”, alle prese con una realtà che non sanno capire e gestire. Un film, dunque, che ha tutte le caratteristiche per rientrare nell’etichetta di un cinema di impegno, progressista, tutto sommato canonico e convenzionale, seppur illuminato dalle interpretazioni di un cast di prim’ordine, con un ottimo Lucas Hedges, una Nicole Kidman madre dolorosa ma coraggiosa e un Russell Crowe che come sempre è un colpo al cuore.

Viene fuori la radice aussie di Edgerton, quella che gli consente di guardare all’America con un occhio particolare. Ma ancora più viene fuori quella sua capacità di iniettare sotto la pelle composta e sensibile del racconto una sottile tensione che, ancora una volta, sembra sprigionare un’energia oscura da thriller. Le scene della terapia, quelle assurde pratiche di virilità da postura e da giri con la mazza da baseball, i giochi di ruolo basati sulla psicologia spicciola della rabbia contro le colpe dei padri, le privazioni e le provocazioni dei rieducatori, a cominciare dallo stesso Edgerton che si ritaglia il ruolo di un ambiguo e nevrotico aguzzino con baffetti da “cattivo” e che, come in The Gift, sembra reggere la storia guardandola di lato, da un angolo nascosto e ambiguo… Tutto si somma e contribuisce al senso di paura, angoscia, smarrimento e incertezza dei rieducandi, costretti a reprimere le pulsioni e a fingere il desiderio di una redenzione impossibile. C’è chi è silenziosamente spaventato, chi cerca di fare il furbo, chi evita il contatto vivendo a fior di pelle (Xavier Dolan, che sempre più sembra voler rivendicare un ruolo di “contorno” d’eccezione all’interno dell’industria) e c’è, ovviamente, chi crolla. E sono tante piccole storie hitchcockiane di innocenze perseguitate e colpe inconsapevoli, di macchinazioni ingovernabili e minacce anonime e surreali (come il tormentone di Nancy Eamons, che teme che un camion prima o poi possa tranciare il braccio del figlio fuori dal finestrino…). L’unico che non ci sta è Jared, che, lucidamente, fa saltare la finzione e ritorna alla questione centrale dei rapporti umani, del confronto con i padri, le loro aspettative e le loro paure, della difficile accettazione dell’altro, della sua natura e dei suoi limiti. Il thriller diventa, così, un affare di famiglia, di gente comune alla ricerca di una redenzione che viaggia su tutt’altro piano, quello dell’amore. Ed è lì che Russell Crowe predica il suo Vangelo.

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