#RomaFF13 – Monsters and Men, di Reinaldo Marcus Green

Un cinema troppo schematico, tra l’accumulo indignato di Spike Lee e i giochetti alla Paul Haggis. Che ha troppi padri ma a cui manca ancora personalità. Gran Premio della Giuria al Sundance

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Quanto è autentica la rabbia di Monsters and Men? Perché il primo lungometraggio di Reinaldo Marcus Green, premiato con il Gran Premio della giuria al Sundance, è un film carico di rabbia. Che segue i personaggi di spalle, che fa diventare disturbanti il rumore delle sirene e le luci blu delle auto della polizia.

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Al centro ci sono tre personaggi. Manny (Anthony Ramos), che ha appena trovato un impiego, una notte filma con il suo smartphone l’omicidio di un uomo di colore disarmato davanti un negozio a Brooklyn, nel quartiere di Bed-Stuy. Questo episodio influenzerà anche le vite dell’agente di polizia Dennis (John David Washington) e di Zyric (Kelvin Harrison jr.), una giovane promessa del baseball.

La partenza era promettente. Con l’agente Denis fermato da un auto della polizia. Dove Green aveva dosato efficacemente quei tempi dell’attesa che poi nel corso del film diventeranno invece il limite. Perché c’è poi sempre un piano, un’inquadratura di troppo. Come a voler ogni volta ribadire ciò che è già stato sottolineato più volte. Monsters and Men urla indignato la propria rabbia contro le sopraffazioni, filma i fermi degli agenti anche con una precisione documentaristica; del resto il suo corto Stop (2015) mostrava tutto quello che poteva avvenire durante una perquisizione. Poi però si fa prendere la mano. Completamente incerto tra frammenti quasi da documentario familiare (la famiglia di Manny) e la necessità invece di costruire una rabbia crescente anche attraverso la colonna sonora. Che spreca scene potenzialmente potenti come la partita di basket con i poliziotti. Quasi un brak, una possibile riconciliazione.

Un film troppo schematico quello di Monsters and Men. Che guarda anche all’accumulo disordinato e furioso di Spike Lee, anche l’ultimo BlacKkKlansman con cui condivide il protagonista John David Washington. Ma che soprattutto crea quei giochetti ala Paul Haggis nei raccordi tra un personaggio e l’altro, come nello sguardo tra Dennis dall’auto e Zyric mentre viene fermato da una pattuglia. Senza dimenticare Oren Moverman. Di questo film è produttore esecutivo. Ma il suo stile entra anche qui. Con l’impressione che la sua presenza sia stata più decisiva rispetto ai credit. Un cinema con troppi padri. Che vuole far vedere di esistere e che si impone. Ma che ancora non ha personalità.

 

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