#RomaFF13 – Notti magiche, di Paolo Virzì

Virzì ritorna agli anni dei suoi esordi per raccontare di un cinema che resisteva, tra splendori e miserie. Ma alla fine ciò che non regge è proprio la lezione sulla responsabilità della narrazione

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Notti tragiche. 3 luglio 1990: si consuma una delle più cocenti delusioni del nostro immaginario collettivo recente, la semifinale l’Italia-Argentina dei mondiali. Dall’uscita sbagliata di Zenga su Caniggia che ci costa il pareggio (un errore mai perdonato, come racconta il vertiginoso scontro con Varriale a Stadio Sprint), fino allo psicodramma dei rigori. E parte proprio da quella sequenza fatale il nuovo film di Paolo Virzì, che omaggia sin da subito la hit di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, colonna sonora di quegli infuocati giorni di calcio. La telecronaca di Bruno Pizzul che risuona per le strade di Roma e sale da un chiosco lungo il Tevere: rigore di Donadoni, parato, rigore di Maradona, dentro, infine arriva Aldo Serena per un ultimo tiro della speranza. Ma anche lì Goycochea para. Ecco che in quell’istante, mentre tutti sono intenti a guardare la partita e a bestemmiare, un’auto cade giù dal ponte e finisce nel fiume. Ci scappa il morto, Leandro Saponaro, produttore cinematografico con l’acqua alla gola, metaforicamente e letteralmente. Scattano le indagini e si arriva (subito) a tre giovani aspiranti sceneggiatori, finalisti del premio Solinas.

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È solo il preambolo di Notti magiche, la cornice di genere che funziona da pretesto narrativo, mentre le partite dei mondiali dettano il ritmo dei giorni e delle notti (quasi come nello straordinario O futebol di Sergio Oksman), con le cronache che si trasformano in una specie di colonna sonora. Forse è questa l’intuizione più interessante del film, la trovata che accorda il racconto a un immaginario condiviso, mentre restituisce credibilità a un’ambientazione anni ’90 che, nei fatti, si ferma alla superficie, a pochi tratti abbozzati: qualche esterno preso “fuori tempo” dalla luce di Vladan Radovic, il look, i costumi… Per il resto vale il principio di nominazione. Conta il dichiarato più che il mostrato. Ed è qui che Paolo Virzì, con la complicità alla sceneggiatura di Francesca Archibugi e di Francesco Piccolo, prova a dipingere l’affresco, mettendo in quadro le grandi glorie del cinema italiano, reali, inventate o ispirate. C’è Mastroianni che piange per la Deneuve, ci sono Fellini e Benigni sul set de La voce della luna, Mario (Monicelli), Lina (Wertmuller), tanti altri personaggi riconoscibili da un dettaglio. E poi il regista Pontani, maestro dell’incomunicabilità (!!!), Palma d’Oro a Cannes con La chiusura; l’autore impegnato Fosco, che vive come un barbone in un sottoscala, con la carriera stroncata dai veti dell’industria; il grande attore francese Jean Claude Bernard, icona del cinema d’autore ed erotomane incallito; l’eminenza grigia Zappellini, il vecchio sceneggiatore che con il cinismo dei sopravvissuti testimonia il tramonto di un’epoca e di uno sguardo comune. Tutt’intorno i personaggi che si aggirano nel sottobosco, le aspiranti attrici dai modi facili, gli avvocati, i negrieri e i negri, i giornalisti che s’imbucano sui set e alle feste, gli stuntman che hanno fatto la fortuna del B movie. E ovviamente Saponaro, l’emblema di un intero mondo, tra pochi splendori e mille miserie. Però era un cinema che resisteva con i suoi riti e i suoi altari, che mostrava una coerenza e una vitalità, nonostante le disillusioni cocenti, le aspirazioni negate, i compromessi da accattoni, i fallimenti e gli assegni rubati. Ed era capace di tener fede al proprio mito, di condividere e raccontare il suo tempo, nel bene e nel male, tra lotte sacrosante e spettacoli da circo televisivo, tra ministri in discoteca, socialisti rampanti (ancora per poco), le notti magiche inseguendo un gol.

Virzì ritorna agli anni dei suoi esordi e porta in scena il riflesso delle sue esperienze, delle cose viste e dei racconti ascoltati, tra realtà e leggenda. Con un cast di presenze d’eccezione, che è il segno del desiderio di un ritratto definitivo.  E seppur le necessità comiche dell’operazione rischiano di scivolare in un grottesco ormai fin troppo di maniera, in un’estetica artificiale di nani, ballerine e mascheroni da avanspettacolo e grandi bellezze colte all’improvviso, c’è in fondo una nostalgia sincera che trova, qua e là, oltre il divertimento, delle punte di commozione autentica (come nella scena di Luciano tra gli operai di Piombino e l’amara partenza in treno poco dopo…). Alla fine ciò che non regge è proprio l’impianto di scrittura, che aspira a diventare una lezione sulla dura responsabilità della narrazione, ma che si accontenta delle semplificazioni e delle figurine, a cominciare dai tre ragazzi protagonisti, nonostante gli sforzi dei giovanni attori, Mauro Lamantia, Giovanni Toscano, Irene Vetere. Il quadro rimane a un abbozzo di disegni senza chiaroscuro, le maschere non si fanno carne, mentre il “capitano” Paolo Sassanelli predica la necessità di “guardare le persone”, di una verità da riconquistare anche nella finzione. Ma le dichiarazioni non bastano. Occorrono le prove…

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