#RomaFF13 – The Hate U Give, di George Tillman Jr.

Tillman Jr. coglie le istanze black al momento giusto, e questo ammanta il suo adattamento del romanzo di Angie Thomas di un senso di urgenza che lo rende probabilmente il suo risultato migliore

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L’intenzione di The Hate U Give appare chiara già dal tentativo di tenere insieme TuPac (a cui si deve l’acronimo del titolo, T.H.U.G. L.I.F.E. inteso come the hate u give little infants fuck everybody, l’odio che insegnate ai bambini fotte tutti) con Kendrick Lamar, il gangsta rap con la trap di DNA, l’Amandla Stenberg (rivelazione straordinaria) degli Hunger Games con una gloria hip hop come Common, qui in un ruolo in divisa da poliziotto. Tillman Jr. ritorna nelle strade del ghetto, dove la sua carriera da produttore ha conosciuto i successi della saga cult dei tre Barbershop, con in più l’esperienza del Luke Cage Netflix che gli ha fatto prendere le misure con i nuovi parametri della blackness, che non è più soltanto quella tormentata e stradaiola del suo biopic su Notorious, ma adesso anche quella cool, contaminata e virale di Childish Gambino – e infatti la Garden Heights di questo film ha le sue location ad Atlanta, il punto di partenza cruciale per la reinvenzione dell’orgoglio black tramite il suo profeta Donald Glover.
Per alzarsi in piedi sul tetto di un’automobile e urlare al megafono che black lives matter c’è bisogno di issarsi sulle spalle di un immaginario che tiene insieme il decalogo delle Pantere Nere con i santini di Malcolm X, ma anche Willy il Principe di Bel Air con Beyoncé (all’operazione al momento più avanzata di tutto questo movimento di ridefinizione innanzitutto estetica, per l’appunto Lemonade di Queen Bee, ha infatti partecipato proprio l’eroina di T.H.U.G. Amandla Stenberg).
Tillman Jr. è abbastanza scaltro da cogliere questa istanza al momento giusto, e questo ammanta il suo adattamento del romanzo omonimo di Angie Thomas di un senso di urgenza che lo rende probabilmente il risultato migliore nella carriera ondivaga del cineasta.

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La mutazione in atto nell’autorappresentazione della comunità black (testo-chiave al riguardo rimane davvero l’episodio di My next guest di Letterman con Jay-Z) è colta qui con lucidità emblematica riguardo a questioni come linguaggio, look, discendenza familiare e comunitaria, posizionamento sociale, politico, e generazionale. Il racconto tiene insieme il mood alla Straight Outta Compton nei quartieri di periferia con intrecci teen tra i corridoi scolastici di un istituto in larga parte frequentato da bianchi uptown, e seppur non sempre dimostra di centrare il tono migliore per affrontare le numerose svolte drammatiche della vicenda, sa quando gonfiarsi di sentimento e di rabbia militante in modo da caricare le immagini di un’efficacia epidermica e sincera, con piglio che passa con disinvoltura da sottolineature young adult a grana davvero quasi documentaristica (vengono in mente, non per struttura né per nitore ma per afflato, istanti di alcuni ultimi Wiseman come Washington Heights o Ex-Libris).

Va da sé, la partecipazione attoriale è accoratissima, a partire dagli adulti (come in un film di Barry Jenkins, il padre è il Mito più luminoso, qui un immenso Russell Hornsby, a duello con l’Anthony Mackie che era stato proprio 2Pac per Tillman Jr. nel film del 2009), per finire con l’intera compagine di adolescenti e little infants.
Lo sguardo giovane – ma per nulla ingenuo – che guida le immagini non deve confondere riguardo l’utopia della riappacificazione possibile nonostante la guerra della polizia USA nei confronti degli afroamericani poveri sia ancora con ogni evidenza aperta: a guardare bene, il film è molto meno riconciliato di quanto lasci intendere la quiete dopo le barricate che sembrerebbe chiuderlo.

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