#RomaFF14 – Fortezza, di Ludovica Andò e Emiliano Aiello

Da un laboratorio di teatro con i detenuti del carcere di Civitavecchia nasce una rivisitazione del Deserto dei Tartari di Buzzati, il testo veicola uno stato ipnotico per il vagare delle immagini

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Continua il percorso di Emiliano Aiello alla ricerca di un luogo dove accogliere le parole tra le immagini. Il precedente Il sogno di Omero visualizzava spazi (im)possibili per donare una materia evanescente alle lande visitate di notte da sognatori ciechi dalla nascita, fino ad interrogarsi sulla fonte originaria stessa delle immagini, e dunque del cinema, forma di vita indipendente dalla volontà e dalla storia degli uomini: uno dei ragazzi non vedenti va costruendo un archivio di scene quotidiane registrate dalla sua videocamerina e poi dal suo telefono, senza alcuna cognizione reale di cosa sia nell’inquadratura, a parte le comunicazioni dell’assistente vocale del device. Chi è davvero l’autore di quelle riprese?

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Aiello riparte da qui, questa volta insieme a Ludovica Andò, che da undici anni lavora con il teatro nelle carceri: Fortezza è prima di tutto uno spettacolo teatrale realizzato con i detenuti della casa di reclusione di Civitavecchia, che scontano una custodia attenuata e che hanno potuto partecipare ai 17 giorni di realizzazione del film per quattro ore al giorno. E poi è un esperimento di messinscena di suggestioni dal Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, evocato nella dimensione fuori dal tempo, sospesa (nella struttura vivono anche dei pony, tra gli altri animali) tra queste mura imponenti e l’eco delle stanze, dei corridoi, degli spazi aperti.
E’ un nuovo dormiveglia dopo quello di Omero, in cui le parole ancora una volta sembrano costituire l’incantesimo di base per uno stato ipnotico che rende queste immagini vaganti, galleggianti tra il senso del testo e derive inaspettate e improvvise, grazie alla solida inquietudine della fotografia di Stefano Tria, del montaggio di Luca Bellino, e delle musiche di Andrea Pandolfo. E allora, di nuovo: quante voci abitano la Fortezza?
Dal linguaggio di Buzzati a quello filmico, attraverso il lavoro di Ludovica Andò con gli attori, è forse proprio ai detenuti che questo racconto appartiene più di tutto: l’obiettivo non guarda mai verso l’esterno, neanche quando i personaggi sembrano scorgere l’agognato nemico in arrivo, o i fantomatici operai per la costruzione della strada – siamo sempre sui loro volti, con la mdp che segue i dialoghi evitando sistematicamente il campo-controcampo, ma spostandosi da un primo piano all’altro proprio per rimarcare questa costruzione di uno spazio parallelo, che vive attraverso l’incrocio tra i corpi e le parole.

L’urgenza che si materializza così in tutta la propria tangibilità è ovviamente quella del tempo, che unisce le figure di Buzzati alle vite di questi detenuti: una definizione qui sempre latente, il tempo passato in Fortezza e quello che ci si dovrà ancora passare, l’ossessione di ogni scambio di informazioni mai certe tra i soldati e i loro superiori, il mistero mai davvero quantificabile di queste esistenze che trovano la loro flebile liberazione nella dilatazione degli attimi, nelle crepe interiori di questo scorrere inesorabile.

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