#RomaFF14 – Trois jours et une vie, di Nicolas Boukhrief

Boukhrief non riesce a far diventare cinema una narrazione nata per la letteratura (e diventata una pièce teatrale), accontentandosi del fascino dei luoghi e delle atmosfere noir ben configurate

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Natale, 1999. A pochi giorni dall’alba del nuovo millennio qualcosa sconvolge la tranquilla cittadina di Olloy (sulle colline delle Ardenne, al confine tra Francia e Belgio): la scomparsa del piccolo Rémi mette in allarme tutti i cittadini e getta nella disperazione la sua famiglia. Un flashback ci fa quindi tornare a tre giorni prima, quando la nostra indagine può partire: il dodicenne Antoine – orfano di padre e legatissimo alla madre Blanche (Sandrine Bonnaire) – è l’unico direttamente coinvolto nel mistero. Inizierà da lì un personale percorso di rimozione della colpa e di allontanamento emotivo dal “villaggio”.

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Tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Lemaître e diretto dallo sceneggiatore di Assassin(s) Nicolas Boukhrief , questo raggelante e raggelato noir di provincia sciorina in pochi minuti ogni archetipo base del genere: dal bosco che attornia la cittadina e risucchia per sempre l’adolescenza, alla tempesta del secolo che travolge e azzera ogni prova lasciando solo macerie; dalle fitte trame familiari che inchiodano ogni personaggio a dostoevskiane responsabilità al “ritorno a casa” quindici anni dopo in un tempo che sembra essersi fermato al trauma originario. E sin qui tutto bene, Boukhrief modella un’atmosfera che unisce umori alla Stephen King al senso di oppressione che ricorda il cinema di Claude Chabrol. Il problema, paradossalmente, è all’origine. Il personaggio di Antoine (da bambino e da adulto) sembra costantemente una marionetta in mano a un plot blindato che scandisce come un metronomo le tappe della sua discesa negli inferi: la morte violenta del cane amato di cui sentirsi responsabile, la fine di Rémi che lo coinvolge in prima persona, la tempesta perfetta e la partenza per diventare medico. E poi, quindici anni dopo, l’inizio di una relazione con la sorella di Rémi, il passato che lo risucchia a Olloy e una decisione obbligata che cambia nuovamente la sua vita. Tutto orchestrato dall’alto, proprio come in quella chirurgica e prolungata inquadratura in plongée sul villaggio che ci appare una dichiarazione estetica di intenti: siamo in un nuovo Dogville vontrieriano? Non proprio, ma poco ci manca.

Certo, non mancano le sequenze degne di nota – tutto il rapporto di Antonine con la madre è costruito benissimo dagli attori –, con le ambigue dinamiche sociali del villaggio e dei suoi non detti che ricordano da vicino il cinema di Atom Egoyan degli anni ’90. Ma rispetto a noir esistenziali come Il dolce domani o Exotica qui manca totalmente la perdita nei sentimenti più intimi, manca il tempo da dedicare alle percezioni del protagonista, perché ci sentiamo perennemente incalzatati dalle urgenze di un plot intasato di eventi che deve sciorinare le sue tappe prestabilite. Insomma, Nicolas Boukhrief non riesce a far diventare cinema una narrazione nata per la letteratura (e diventata una pièce teatrale di successo), accontentandosi dell’innegabile fascino del contesto (luoghi e atmosfere noir ben configurate) senza però evitare l’asfissiante sensazione di un testo già depotenziato in partenza… peccato.

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