#Russia2018 – L’arte dell’Uruguay

Due o tre cose da sapere sulla patria del calcio e sulla sua…immagine del mondiale.

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Provate a immaginare se la città di Roma, con gente nata solo ed esclusivamente a Roma, partecipasse a un campionato del mondo e vincesse quasi tutte le partite, magari facendo meglio di Paesi come la Germania, l’Inghilterra, il Brasile e l’Argentina. Ecco, l’Uruguay è un fenomeno di questo tipo. È un Paese molto piccolo che confina con Brasile e Argentina e ha una superficie di 176 mila chilometri quadrati, ossia poco più della metà dell’Italia. Soprattutto in termini demografici tra Uruguay e Italia non c’è paragone. Ha tre milioni e 500 mila abitanti, che corrispondono al 5,7% degli italiani. Poco più di quanti ne ha Roma appunto. Eppure circa il 44% degli uruguayani sono di origine italiana e, sarà un caso, anche l’idea di calcio è molto italiana. Si basa su un gioco difensivo, ordinato e tenace, ma con una sua logica e un suo stile e non privo di eleganza nei settori più avanzati. C’è alla base una concezione pratica ed essenziale di squadra. Quello che serve viene usato dove serve. E così i difensori sono (quasi) sempre sporchi e cattivi. I centrocampisti devono correre. E gli attaccanti possono essere tecnici e spettacolari. C’è una variabile e una mescolanza interessante per caratteristiche tra i giocatori. Con peculiarità diverse, sanno tutti giocare bene e questo è determinato da un fatto semplice: tutti in Uruguay giocano a calcio. Lo fanno sin da piccoli, nelle strade come nelle scuole. Da giorni circola in rete un video bellissimo che documenta la reazione dei bambini a scuola dopo il gol vittoria contro l’Egitto nei minuti finali. Credo che racconti il rapporto viscerale tra la popolazione e questo sport meglio di qualsiasi altra cosa. Ha che fare con le proprie radici e la sopravvivenza stessa di queste radici. Da questo punto di vista il rapido tweet pubblicato ieri pomeriggio dal giornalista sportivo Paolo Condò racconta perfettamente lo spirito uruguayano. Il calcio come sopravvivenza. in una linea grigia che mette insieme cuore, rabbia, classe e ingegno. 

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Sottovalutare l’Uruguay prima di ogni manifestazione calcistica significa non conoscere la storia del calcio. Non solo ha vinto gli stessi mondiali dell’Argentina (nel 1930 e nel 1950, uno in più di Inghilterra e Francia per esempio), ma anche due medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1924 e 1928, svoltesi rispettivamente a Parigi e Amsterdam, quindi nel cuore dell’Europa. Vittorie che gli uruguayani considerano a tal punto importanti storicamente e sportivamente da inserirle nello stemma insieme alle stelle della Coppa Rimet per un totale di quattro. Nel rapporto tra numero di abitanti e vittorie l’Uruguay è la migliore nazione del mondo. Rientra nei paradossi del calcio e in una tradizione culturale fondata sulla riservatezza e sul sacrificio che questa grandezza a livello mediatico non sia spesso riconosciuta. L’Uruguay è l’unica nazionale del mondo capace di schierare in attacco i cannonieri di Barcellona e Paris St. Germain senza che questo abbia una sia pur minima riconoscenza giornalistica internazionale. Forse è per questo che l’immagine di queste prime partite giocate in Russia (e vinte) non è un calciatore ma un uomo vecchio e malato, ovvero lo storico selezionatore (e maestro di calcio) Oscar Washington Tabarez. Nonostante la neuropatia periferica che lo affligge, lui ha voluto guidare la sua squadra anche in questa competizione. Quella di lui in panchina con il bastone che fatica ad alzarsi a un gol segnato è un’immagine carica di passione, poesia e sofferenza. Molto uruguaiana. E molto calcistica a modo suo. E ora questa immagine dovrà vedersela con quella superomistica e perennemente virtualizzata di Cristiano Ronaldo, in un ottavo di finale che già si preannuncia apertissimo e perversamente metaforico. La malattia contro l’efficienza robotica. La (non) Immagine contro la (sola) Immagine.

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