Sam Peckinpah: The art of self destruction

In occasione della retrospettiva organizzata dal Festival di Locarno, ecco un profilo del grande Sam Peckinpah: cineasta che ha attraversato i generi rivoluzionandone forma e linguaggio

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“Penso che il western sia un genere ricchissimo perché permette di affrontare decine di problemi che lo trascendono, problemi che sarebbe difficile trattare in un quadro contemporaneo. E, tranne qualche scena ben precisa, credo che nessuno dei miei film sia in realtà un western canonico. Io faccio western che riflettono qualcos’altro, che pongono un certo numero di domande con cui l’America e il mondo in generale devono oggi confrontarsi. Credo, anzi spero, che i miei film possano soprattutto riflettere la cattiva coscienza dell’America.” Sam Peckinpah

Se c’è un autore che ha inciso profondamente nella storia del cinema mondiale questo è sicuramente Sam Peckinpah che ha attraversato vari generi (il western, ma anche l’action e il war-movie) rivoluzionando la forma e il linguaggio. Non è un caso che moltissimi esponenti della New Hollywood l’abbiamo preso come nume tutelare e come traghettatore dell’arte cinematografica verso i lidi della post modernità.

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Sam Peckinpah nasce il 21 febbraio 1926 nella San Joaquin Valley in California, da un incrocio tra sangue irlandese, gallese, olandese e indiano. Conosce, attraverso i racconti del nonno materno, i veri risvolti dell’epopea del West e ne diventa appassionato studioso con l’aiuto del padre, giudice della Corte Suprema. Dopo una breve escursione nel mondo della giurisprudenza e un inizio di carriera militare, il giovane Sam comincia il suo apprendistato nel mondo dello spettacolo attraverso il teatro (opere di Saroyan e Tennessee Williams) e la televisione (prima supervisore ai dialoghi, sceneggiatore e infine autore in piena autonomia per alcune serie Tv come The Broken Arrow e The Westerner di cui è anche produttore). Il passaggio al cinema avviene grazie all’interessamento di Water Wanger della Allied Artists che gli propone il ruolo di “assistente-segretario di produzione”. Successivamente diventa aiuto regista di Don Siegel e scrive la sceneggiatura del capolavoro L’Invasione degli Ultracorpi (1956). Il debutto alla regia avviene nel 1961 a 35 anni grazie all’intercessione dell’attore di The Westerner, Brian Keith: il film è The Deadly Companions (La Morte Cavalca a Rio Bravo) dal romanzo di A. S. Fleischmann. In realtà Sam Peckinpah rinnegherà in futuro il film, contestando di non avere avuto alcuna autonomia nella messa in scena.

sam2Ma i successi delle serie televisive portano al regista una seconda occasione nel 1962 con il fil1m Ride The High Country – Sfida nell’Alta Sierra realizzato con pochissimi mezzi ma con una certosina attenzione alla ricostruzione degli ambienti. Il film contiene in nuce tutte le tematiche del regista americano: il tramonto dell’Old West, l’atmosfera autunnale in cui si muovono personaggi ormai traditi dalla vita, relegati ai margini del proprio tempo. Il film ebbe un grande successo e i critici europei salutarono la nascita di un nuovo autore che trasformava l’epopea del west in un triste canto di commiato sulle ceneri fordiane (L’uomo che uccise Liberty Valance è del 1961). La terza opera Major Dundee-Sierra Charriba (1964), soffre di una leggendaria lite con il produttore Jerry Bresler che porterà a un massacro in sede di montaggio, con una versione finale che sarà misconosciuta dal regista. Nonostante i tagli esiziali che compromettono la stabilità dell’opera, non è difficile captare uno spostamento verso i territori del sadismo e della violenza, con una ipertrofizzazione grottesca delle figure che porterà qualche critico ad un ardito e non pertinente parallelismo con il contemporaneo spaghetti western di Sergio Leone. I litigi furibondi con i vari produttori costano un esilio dal mondo di Hollywood che durerà per ben quattro anni durante i quali Peckinpah ritorna a scrivere successi per la televisione.

the wild-bunchL’idealismo anarchico troverà il suo felice compimento nel capolavoro del 1969 The Wild Bunch-Il Mucchio Selvaggio che stravolge tutti i canoni estetici ed etici del genere. Rivoluzione nella grammatica filmica con montaggio frenetico, numero spropositato di inquadrature (3643!), ralenti inseriti nei momenti topici, iperrealismo pulp con fiotti di sangue copioso. A questo si associa un ribaltamento morale con la impossibilità a distinguere i buoni dai cattivi, un canto funebre dell’epopea del West popolato di “Misfits” che hanno perso la loro occasione e che ritrovano un sussulto identitario solo nel momento della morte. Questo film fa virare letteralmente il cinema di Peckinpah verso una deformazione post moderna del western dove alla distruzione dei miti della famiglia, della legge, della giustizia, dell’amore, si sostituisce una rappresentazione violenta di un microcosmo comunque estraneo ad ogni norma sociale. La violenza prima relegata al fuori campo o a un astuto taglio di montaggio, adesso inonda lo schermo non per puro calligrafismo ma come fenomeno antropologico e culturale, metafora di una America che divora sé stessa. Il film successivo di Peckinpah, La Ballata di Cable Hogue (1970), è un po’ il controcanto di questo pessimismo disilluso, attraversato dal tenue raggio di sole della storia d’amore tra Cable Hogue e Hildy: nonostante la testardaggine di Cable Hogue lo conduca a costruire una vera e propria cattedrale nel deserto, il destino dell’uomo sembra segnato da eventi e avvenimenti su cui non ha alcuna possibilità di controllo. Tutti gli sforzi, il sudore, il talento sembrano sbriciolarsi dietro la consapevolezza di essere polvere e di ritornare alla polvere. Dietro questa lucida e realistica analisi sulla condizione umana, si innesta il virus autodistruttivo che minerà nel tempo mente e fisico di Peckinpah.

strawdogsStraw Dog-Cane di Paglia (1971) porta agli estremi il discorso sulla violenza insita nella natura umana e sulla lotta selvaggia di sopraffazione di un essere sull’altro. Le accuse dei critici furono piuttosto feroci: opera fascista, anti-femminista, disonesta dal punto di vista intellettuale ma in realtà in Peckinpah non vi è mai intenzione di esaltare il giustizialismo o il determinismo aggressivo di Konrad Lorenz, ma di registrare la reazione patologica di un uomo mite (David-Dustin Hoffmann) quando viene invaso il proprio privato. I due successivi film vedono protagonista Steve Mc Queen: il primo è Junior Bonner-L’Ultimo Buscadero (1972), la storia di campione di rodeo che, nonostante il mito del West sia finito da un pezzo, vive nel ricordo di un passato irripetibile; il secondo è Getaway (1972) sceneggiato da Walter Hill, che propone la fuga disperata di un rapinatore con la consorte dal Texas fino in Messico. Dietro le fila di una narrazione sempre avvincente, si nasconde la dissoluzione della famiglia americana classica (il rapporto padre-figlio ne L’Ultimo Buscadero) , l’immagine del sogno americano che divorando sé stesso è diventato incubo (gli sporchi affari e i tradimenti di Getaway) e il romanticismo burbero di storie d’amore d’altri tempi (Doc e Carol in Getaway).

GarrettE non è un caso che Pat Garrett e Billy The Kid (1973) e Voglio la Testa di Garcia (1974) sanciscano il de profundis del genere western e la resa incondizionata ad ogni possibilità di recuperare la felicità perduta. Pat Garrett sulle note di Bob Dylan compie il suo tradimento e spara allo specchio non riconoscendo più la propria immagine, ormai sul libro paga del Sistema di Potere. L’anarchico idealista Billy the Kid decide di tirarsi fuori in modo onorevole, scegliendo consapevolmente la via del martirio. Stesso comportamento autolesionistico è quello del pianista Bennie (monumentale Warren Oates, alla migliore interpretazione della carriera) nel momento in cui realizza di avere perduto l’amore della sua vita e avendo solo tra le mani la testa mozzata di Garcia . E’ l’arte dell’autodistruzione di uomini che hanno perso la battaglia con i propri demoni interiori e che sono stati emarginati da una società che li ha considerati sovversivi. Lo stesso Peckinpah ha imboccato da tempo una deriva esistenziale tra il delirio alcolico e la psicosi paranoide: liti con i produttori, divorzi seriali, continue ossessioni su microspie e tradimenti. Il cantore dei perdenti è diventato lui stesso uno sconfitto. Gli ultimi film riprendono i vecchi temi dei suoi capolavori: la violenza e la vendetta in Killer Elite (1975), il senso dell’onore e dell’amicizia in Cross of Iron-Croce di Ferro (1977), il road movie dalle connotazioni grottesche in Convoy-Trincea d’Asfalto (1978) fino ad arrivare alla profezia sulla pericolosità del mezzo televisivo in Osterman Weekend (1983) portato a termine tra gravi problemi di salute e con continui rimaneggiamenti in fase post produttiva. L’epopea dell’annientamento è conclusa, non è più un paese per vecchi buscaderi o per folli artisti vagabondi, Sam Peckinpah toglie il disturbo in piena solitudine il 28 dicembre del 1984 a soli 59 anni colpito da ictus. Per certi poeti maledetti e visionari vale il crudele aforisma di Leonardo Sciascia: non è la speranza l’ultima a morire, ma è il morire l’ultima speranza.

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