Sandrine Bonnaire, la casa-cinema

sandrine bonnaire

Guardare oggi Sandrine Bonnaire e rivederla adolescente diretta dall’indimenticato Maurice Pialat dà la stessa affettuosa malinconia che assale in Amour di fronte ai volti invecchiati di Trintignant e della Riva. Un percorso che dall'adolescente ribelle di Ai nostri amori trova nel passaggio alla regia una inevitabile quadratura del cerchio

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Sandrine Bonnaire ai nostri amoriL’unica vera concessione al divismo Sandrine Bonnaire l’ha avuta nei confronti del cinema americano, comparendo nei panni di se stessa nell’incredibile sequenza iniziale del Femme Fatale di Brian De Palma, simbolo dell’allure raffinata della cinematografia europea e del festival più importante al mondo mentre nelle toilette del Palais  Rebecca Romjin-Stamos è impegnata a sedurre una modella per sottrarle un prezioso gioiello.

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La scelta di De Palma sembra cadere sul corpo minuto, grazioso ma certo non statuario della Bonnaire per contrasto con la sensualità dirompente sua protagonista, ma ha soprattutto la felice intuizione di cogliere l’eccezionalità di una filmografia che poche interpreti possono vantare e che l’ha portata a vivere una seconda esistenza sullo schermo, crescendo sotto gli occhi del pubblico e di quello della macchina da presa.

Guardare oggi Sandrine Bonnaire e rivederla adolescente diretta dall’indimenticato Maurice Pialat lascia la stessa tenerezza, la stessa affettuosa malinconia che assale in Amour di Haneke di fronte ai volti invecchiati di Jean Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, a cui l’autore austriaco fa sfogliare un album di foto sfruttandone al massimo il potere iconico. Anche con Sandrine Bonnaire (lei così come altre giovanissime poi rimaste ai più alti livelli del cinema d’oltralpe come Juliette Binoche, Sophie Marceau o Marie Gillain) ogni nuovo personaggio si carica del valore affettivo di un volto familiare, che fa parte della nostra casa-cinema.

 

 

sandrine bonnaire senza tetto né leggeLa sua filmografia sembra seguire – o forse è il contrario? – la sua crescita come donna e rispetto ai primi ruoli ribelli, di adolescente affamata di vita dallo sguardo fiero e sfrontato, diventa via via più gentile, delicata, come se la vita avesse levigato un’asprezza colta prima di tutto dalla cinepresa.

 

Un percorso che prende le mosse dalla Suzanne di Ai nostri amori, inizio del sodalizio con Pialat poi proseguito due anni dopo con Police, nel 1985, anno che la vede protagonista anche del bellissimo Senza tetto né legge di Agnes Varda, dove è la vagabonda Mona: un incipit ruvido, con il ritrovamento del corpo morto per un ritratto à rebours, reso attraverso lo sguardo frammentario dei suoi incontri più recenti.

Inquieta e imbronciata come l’adolescente ripresa da Pialat, sospesa tra l’amore per la figura paterna e la prima relazione sessuale, di cui – come scriveva anni fa Francesco Ruggeri – il regista “scolpisce il corpo dell'adolescenza in grido disperato e traballante di aiuto”.

 

 

Negli anni seguenti la Bonnaire continua a mostrare una predilezione per ruoli non facili – è la Giovanna d'Arco di Jacques Rivette –  o sgradevoli, che da una parte ne mettono in luce una sensualità mai scontata ma anzi cerebrale, e dall’altra sfruttano i tratti irregolari per ritratti femminili sempre sfuggenti, che trovano inevitabilmente la strada del noir o del thriller: nell'88 Patrice Leconte la sceglie per la sua trasposizione da Simenon in Monsieur Hire, dove è Alice, donna amata dal protagonista che per lei si danna fino alla morte nel più fatale dei detour.
Qui Sandrine è protagonista di una memorabile sequenza che mette in atto certi meccanismi voyeuristici del primo De Palma – e chissà che lo stesso regista non ne abbia tenuto conto per la scelta di Femme fatale…- body double spiato dal timido Monsieur Hire, pronta ad offrirsi lascivamente allo sguardo della macchina da presa per poi prendersi la sua rivincita sul protagonista e sullo spettatore.

 

Il colore della menzognaMa è soprattutto accanto al maestro del genere Claude Chabrol che questo lato torbido matura appieno: nel 95’ è Sophie, dislessica cameriera che si unisce alla postina Isabelle Huppert nell’omicidio di una borghese famiglia di provincia che ha il sapore di una efferata rivalsa sociale.

Tratto dal romanzo di Ruth Rendell La morte non sa leggere, Il buio nella mente resta uno dei film più straordinari di Chabrol, che si avvale dei corpi della Huppert e della Bonnaire per inscrivervi il montare di una follia che trova terreno fertile nella quiete apparente della provincia.

Tre anni dopo il regista di Le boucher la sceglie nuovamente per un ruolo più sfumato nel bellissimo Il colore della menzogna, ambientato in una brumosa Saint Malo, dove è la moglie del pittore Jacques Gamblin, motore inconsapevole di gelosie feroci.
Au coeur du mensonge (assai più vivido per la poetica chabroliana il titolo originale) segna anche l’inizio di un cambiamento nell’immagine della Bonnaire verso una femminilità meno inquieta e più garbata, quotidiana, che trova la sua più compiuta formulazione in Mademoiselle di Philippe Lioret, dove davvero sembra ritrovare il sorriso che i primi ruoli drammatici ed estremi le avevano in qualche modo sottratto.

Storia leggiadra e primaverile con la scoperta – forse l’ultima, prima di rientrare nella routine domestica – di un amore improvviso e sorprendente, tutta giocata sulla chimica col ritrovato Gamblin, in un continuo lavoro di improvvisazione e riscrittura del testo che lascia già intravedere quella tendenza autoriale poi confluita nel passaggio alla regia.

 

 

sandrine bonnaire registaElle s’appelle Sabine è un piccolo gioiello in cui la Bonnaire mette a nudo un privato doloroso che non poteva non congiungersi allo schermo, a quella seconda casa che è stata per lei il cinema.
Il suo racconto intimo della sorella minore, affetta da autismo, è un documentario che per tema e stile si apparenta a Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi: stesso uso, intenso e struggente, di un materiale d’archivio che è prima di tutto affettivo, l’esordio della Bonnaire ragiona sulla malattia come eccesso di sensibilità, di creatività, analogamente al discorso della Marazzi sulla “follia” materna.

 

In Francia il film ha un grandissimo successo, poi bissato dall'opera seconda, presentata a Cannes e vista in Italia al Med Film Festival e al Sottodiciotto, che le rende proprio in questi giorni omaggio con una rassegna.

J’enrage de son absence
decreta definitivamente la Bonnaire come autrice da inscrivere nel solco dei suoi mentori.
Secca ma emotiva come Pialat, senza facili concessioni
sentimentali, recide le scene un attimo prima che possano scadere nel patetismo; permeandole dello stesso fluido, osmotico rapporto arte/vita, per cui si trova a dirigere l’ex compagno William Hurt nel ruolo difficile e delicatissimo di un padre che ritrova nel bambino dell’ex moglie un revenant di quello perduto in un drammatico incidente.

Un atto d’amore, questa parte data a un attore meraviglioso ormai quasi dimenticato dal cinema americano, che sembra chiudere un cerchio. Nella sua casa-cinema Sandrine Bonnaire, corpo a lungo studiato e spiato dallo spettatore/Hire, si sottrae allo sguardo invadente della cinepresa e proprio come Alice al termine della sequenza, scavalca il campo passando alla regia.

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