SCONFINAMENTI – Il cinema che non muore (Ritorno su Grindhouse – A prova di morte)

Se davvero il cinema è morto, Tarantino non si limita certo a deporre fiori o a metterne in bella mostra il cadavere: piuttosto ci si accanisce e lo violenta, per ribadirne l’inguaribile vitalità. A prova di morte lavora e pensa a partire dal proprio stesso tessuto filmico, racchiudendo generi e idee non per imprigionarli sotto il pretesto della cinefilia, ma per liberarli, qui e ora

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A questo punto ci rendiamo davvero conto di come, tra tutti i titoli di questa stagione cinematografica che sta volgendo al termine, a rimanere più scolpito nella memoria è quel cinema che si pone in maniera critica e riflessiva nei confronti di sé stesso, quello che non rinuncia a domandarsi dove stia veramente andando e quali siano le nuove strade da intraprendere. Su tutti, Miami Vice di Michael Mann, l’unica opera davvero in grado di inglobare in sé stessa il passato e il presente, per guardare al futuro sia nei confronti della propria specificità di appartenenza (il poliziesco), sia – soprattutto – nel modo di porsi/pensare/realizzare una visione. L’inafferrabilità concreta e materiale del film di Mann è l’espressione massima di un sentimento di smarrimento diffuso, dove gli interrogativi si disperdono nell’aria e solo sul grande schermo riescono a trovare una giusta via per raggiungere una risposta: si pensi anche a INLAND EMPIRE di Lynch (che meriterebbe un approfondimento a sé), e certamente pure alla dipartita umile e silenziosa del Centochiodi di Olmi, il più colpevolmente bistrattato (e ancora, a Rocky Balboa di Sylvester Stallone…).

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Grindhouse – A prova di morte è cinema che lavora e pensa a partire dal proprio stesso tessuto filmico, racchiudendo generi e idee non per imprigionarli sotto il pretesto della cinefilia, ma per liberarli, qui e ora: quando inizia l’inseguimento finale, dove la Dodge di Stuntman Mike e quella delle quattro ragazze si fanno strada con la forza tra SUV e altri mezzi moderni vari,  non è il tema musicale di Italia a mano armata a farci brillare gli occhi dalla commozione, bensì il completamento della poetica Tarantiniana, l’aggiornamento di un immaginario, la dichiarazione di una compiuta politica d’Autore. Come sottolinea Mauro Gervasini, “[in Grindhouse] l’esotismo è dato dal cinema stesso, (…) al posto della Terra di Mezzo o del Mar dei Carabi i film e le musiche, le locandine e i gadget”.

Il cinema è morto? E allora come risposta Tarantino non ne espone in bella vista il cadavere (come fa De Palma con The Black Dahlia, per esempio), bensì lo violenta, si accanisce con estrema forza sulle sue carni morte per ribadirne l’indiscutibile vitalità: è intorno a questo paradosso che vive e si muove il suo film, con una seconda parte che è praticamente il rifacimento della prima, su pellicola “buona” e con la (vera) stuntman Zoe Bell che diventa il fulcro e il significato di tutta l’operazione. In Tarantino il cinema risorge dalle ceneri come faceva la Sposa in Kill Bill, perchè A prova di morte guarda sì al passato, ma mai con l’atteggiamento di chi si pone verso ciò che è stato per farne una copia carbone: il citazionismo rappresenta il punto di partenza per la creazione di qualcosa di nuovo e, novello Frankenstein, Tarantino smonta e rimonta il giocattolo a suo (e nostro) piacere, accettando di buon grado la propria statura di regista/divinità; un manipolatore che è burattinaio e allo stesso tempo burattino, perchè preferisce scendere in platea guardando il film in contemporanea allo spettatore, lasciando che a filtrare le immagini sia l’occhio squarciato di Kurt Russell. E’ suo l’occhio che uccide, ed è tramite un processo di vouyerismo incredibilmente teorico e stratificato che A prova di morte si trasforma e si reinventa, passa dalla notte sporca e sgranata alla luce del giorno, alla (nuova) vita.

Il cinema è morto? Lasciamolo credere ai menagrami e agli increduli: qualcosa di nuovo sta nascendo…

 

 

 

 

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