Sentieri Selvaggi Playlist #2 – Just Like Honey

La canzone dei The Jesus and Mary Chain ha segnato un momento imprescindibile per la filmografia della Coppola e per i suoi finali. Continua la raccolta di canzoni per l’estate della redazione

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In una recente intervista su Repubblica parlando del suo ultimo film L’Inganno, Sofia Coppola ammette di aver sempre preferito i sussurri alle parole. E’ una naturale propensione nata come contrasto al carattere vulcanico del padre Francis e alla vita da girovaga che le ha condizionato l’infanzia, ha confessato. Come spesso succede nei suoi film, queste frasi risultano del tutto superflue soprattutto alle orecchie di chi la sua filmografia la saprebbe citare inquadratura per inquadratura. Fanno però tornare alla mente una scena in particolare che meglio di tutte esprime quest’indole e che rimane, attualmente, ancora la sequenza più intima e commovente del suo cinema. Si tratta del finale di Lost in Translation quando il personaggio interpretato da Bill Murray scende dalla macchina, raggiunge Scarlett Johansson con cui aveva condiviso gli ultimi giorni a Tokyo e le dice qualcosa all’orecchio. Lo spettatore non riesce a capire cosa le abbia detto ma si sente solo la risposta. Leggenda vuole che solo gli attori sappiano la natura esatta del dialogo, diventato poi oggetto di tanti studi da parte di fans che si sono improvvisati esperti in decodificazione del labiale. La verità è che saperlo diventa, appunto, superfluo. E’ infatti il momento successivo che dà subito significato al gesto. Quando l’abbraccio si scioglie, i due si salutano, c’è un ultimo sguardo e parte la batteria di Just Like Honey dei The Jesus and Mary Chain con quel verso iniziale listen to the girl che accompagna i personaggi su strade diverse. Si potrebbe dire che questa sia una classica risoluzione dell’intreccio coppoliano, perché in fin dei conti non si può pensare ad uno dei suoi film senza la colonna sonora: Il giardino delle vergine suicide senza AIR, Marie Antoniette senza New Order, Somewhere senza Phoenix, Bling Ring senza Sleigh Bells. Ma, tralasciando un elenco che potrebbe alimentare l’erronea convinzione della natura videoclippara dei suoi film, il caso di Lost in Translation è del tutto unico.

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E’ stato costruito un film sul disagio del non espresso, del non detto. Su due persone che condividono una stessa condizione senza però parlarne mai. “Le emozioni vengono più spesso espresse con la gestualità. Nessuno parla tanto nella vita vera come nei film” dice la Coppola. Ed è vero ma i protagonisti di questo film sembra che vogliano comunicare, ma non sappiano come farlo. Sono chiusi nel distacco riservato agli estranei, ma attratti dalla complicità di sentirsi fuori posto. Ecco perché l’impressione che ha chi lo guarda è che ci sia sempre qualcosa di trattenuto e di asfissiante, una sensazione di inadeguatezza che aleggia per tutta la durata fino agli ultimi minuti finali. L’attacco di Just Like Honey è il respiro liberatorio che tutti aspettavano

gif critica 2dall’inizio, quello che pone fine all’apnea dei 90 minuti. Rivedendo il film più volte e ridisegnando gli schemi della cinematografia della regista, questo momento è del tutto prevedibile, ma la prima volta che si guarda Lost in Translation l’arrivo del finale restituisce un attimo di sfogo raramente riproducibile. Come quando non si riesce più a trattenere qualcosa che ci si portava dentro da sempre, e si esplode. Ecco perché, pur riconoscendone musicalmente l’oggettiva bellezza, Just Like Honey non può più essere scissa da quella scena che le ha dato un connotato di assoluta libertà. Una libertà conquistata dal fatto di aver finalmente parlato, di essere riusciti ad esprimersi. Di parole non udibili, ma di cui l’effetto viene sintetizzato subito dopo dagli accordi di una canzone e un verso. Poi si può ripartire, più leggeri, come quel sorriso e quel alright appena accennato che avranno bisbigliato in tanti dopo la prima, catartica visione.

 

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