SERIE TV – The Looming Tower

Nella serie sul 9/11 tratta da Lawrence Wright, Alex Gibney si pone ancora una volta il problema del (ri)scrivere la storia. Su Amazon Prime Video. Con Jeff Daniels, Tahar Rahim, Peter Sarsgaard

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Nel momento in cui la molteplicità delle produzioni seriali americane che si occupa strettamente di politica e giochi di potere fa debordare il suo sguardo sul contemporaneo, dirigendo e forzando il presente in un articolato plesso costituito da dimensioni parallele e iperreali il cui minimo comune denominatore è il situarsi sull’orlo dell’imminente – o già avvenuta, come in Designated Survivor – catastrofe, l’operazione condotta da Alex Gibney con The Looming Tower cerca di rimettere in gioco il reale facendo tornare lo spettatore agli inizi e alle macerie della storia del XXI secolo: gli attentati terroristici dell’11/9. Questo riavvolgere il nastro del tempo – o semplicemente i nostri archivi audiovisivi – operato da The Looming Tower sembra così voler delegittimare qualsiasi spazio d’azione a quei piani simulacrali che fanno della bulimica soluzione alla perpetua logica della crisi – Homeland – il loro modus operandi affinché possa essere permesso alla temporalità storica di rientrare in scena attraverso la manifestazione del fallimento istituzionale e, di seguito, dell’ineluttabilità della catastrofe, la cui prima drammatica rappresentazione è negli attentati alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam del 7 settembre 1998 (E01).

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Il mancato scambio d’informazioni tra la CIA e l’FBI negli anni precedenti agli attentati ha portato alla loro mancata predizione e, dunque, alla loro mancata neutralizzazione: è questa la tesi del libro di Lawrence Wright Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’undici settembre, Adelphi, vincitore nel 2007 del Premio Pulitzer per la saggistica e, di conseguenza, di The Looming Tower. Un’assenza di relazione che s’installa nella serie su un’estremizzata caratterizzazione dell’umano, una ritrattistica che si configura, tra Schmidt e O’Neill, nella (in)differenza tra razionale e supremo bene dello Stato e una tonalità emotività scandita da una costante fragilità sentimentale.
È dunque un problema di comprensione linguistica quello che The Looming Tower vuole sottoporci poiché l’emersione di una figura terza, capace realmente di mediare tra le diverse tattiche e di tradurle rendendo le riunioni nei palazzi del potere meno asfittiche e autoreferenziali, è sentita, nella sua inesistenza, come necessaria e urgente.
È un problema di traduzione che sfocia, tuttavia, in quell’emicrania di cui è vittima parte della serialità contemporanea. Più le serie si avvicinano, infatti, ai centri nevralgici delle istituzioni americane, più si anestetizzano su quei modelli fatti di logiche cospirative, impeachment e più o meno vanagloriose ricerche/conquiste del potere – quanti altri Studi Ovali dovremo sorbirci dopo quello di Kevin Spacey/Robin Wright, Elizabeth Marvel e Kiefer Sutherland? – che stanno inondando i nostri schermi. Eppure The Looming Tower aveva nei suoi temi, la storia e la moltiplicazione dei punti di vista, le precipue vie di fuga per sottrarsi a questo tipo di discorsi immaginifici. È, anche in questo caso, il fallimento della questione della mediazione, o meglio della terzietà tra i due contendenti.

L’incapacità dell’immagine di arrestarsi in un solo luogo, la geolocalizzazione sempre

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in ritardo, in continua differita rispetto al posizionamento effettivo di Osama Bin Laden e degli altri membri di al-Qaeda, gli interrogatori di Ali Soufan in terra yemenita, l’utilizzo delle immagini di repertorio, hanno dato a The Looming Tower< la possibilità di aprirsi a un processo di estimità geografica e nei confronti del reale e allo stesso momento hanno negato questo baricentro esterno. Basti pensare come in E01 l’intervista a Osama Bin Laden di John Miller venga riportata a un grado finzionale nel momento in cui in controcampo appare un attore che interpreta il giornalista di Abc News. Il grande Altro dell’11/9 è stato così appiattito in spiegazioni semplicistiche, sottolineature delle letture errate del Corano, in un processo fantasmatico nel quale le menti pensanti dei futuri attacchi sono state sostituite, lungo l’arco delle puntate, dalle pedine mortifere dei futuri attentati – da Mohamed Atta in poi – come se ci fosse stato un lungo passaggio dalla teoria alla prassi senza essersi chiesti il perché profondo di quelle macerie.

Totalmente deficitaria rimane dunque quella che può essere definita come la questione estetica dirimente: la mancanza di un eastwoodiano reincrociarsi degli sguardi si palesa in The Looming Tower nel suo assurgere il punto di vista degli attentatori in una mera esistenzialità nichilista che, col passare degli anni, evidenzia tutti i suoi limiti; i tempi per la serialità americana non sembrano così essere ancora maturi per l’oltrepassamento destrutturante di quella rassicurante rappresentazione monolitica annoverabile all’interno della sua visione egotica ed egemonica.

È un problema, in fondo, ascrivibile all’ordine del visibile ed esemplificabile con una sequenza di E04: gli Stati Uniti hanno appena bombardato un’azienda farmaceutica a Khartoum per i suoi possibili collegamenti, poi rivelatisi falsi, con al-Qaeda. L’agente dell’FBI Bob Chesney è in macchina nel traffico di Nairobi ed è ancora estremamente provato per il susseguirsi degli eventi. Un pallone colpisce l’auto su cui viaggia facendo sobbalzare noi e lui. Da dentro l’auto vediamo un adolescente con indosso una maglietta con raffigurato il volto di Bin Laden e la scritta «You missed» volgersi verso la macchina. Tenta di guardarci dentro e riceve dai vetri oscurati solo il riflesso della sua immagine. Il sollievo di Chesney, che vede di chi ha di fronte, è palese nonostante quel volto stampato su cotone gli rammenti qual è il suo obiettivo e, di conseguenza, di quale narrazione si sta facendo carico la serie. In contrasto, il volto dell’adolescente è corrucciato, il suo tentativo di scambiarsi uno sguardo con chi è dentro quel veicolo è semplicemente negato. Dietro all’interruzione di questo incrocio vi è semplicemente il fenomenizzarsi di una relazione non paritaria: da una parte la visibilità onnisciente della narrazione americana, dall’altra l’incapacità di accedere a una forma di dialogo, un’interazione. Ciò può essere interpretato come una dichiarazione d’intenti oppure come la certificazione di un fallimento: l’assenza non tanto del terzo quanto del controcampo.
La possibilità di (ri)scrivere la storia viene dunque rimandata senza prorogare la necessità di una specifica domanda: quanto è in grado questo tipo di serialità di tornare indietro nel tempo senza che la sua estetica possa essere “messa in crisi”?

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