SERIE TV – "West Wing", di Aaron Sorkin

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A più di dieci anni dal debutto sulla televisione americana la Warner propone sul mercato home video la prima stagione della serie West Wing. Un’ottima occasione per riscoprire una delle serie più importanti del passato decennio e per vedere il talento dello sceneggiatore Sorkin già prima dell’Oscar per The Social Network

 

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west wingNel 1999 gli Stati uniti stavano per vivere un periodo di transizione. Dall’amministrazione Clinton, con tutte le promesse non mantenute, gli scandali sessuali e gli spergiuri, si stava per entrare a pieno nell’era Bush, segnata dall' 11 settembre, la guerra in Iraq e in Afghanistan e gli scandali economici. In quel momento uno sceneggiatore, neanche quarantenne con pochi script alle spalle decise di usare tutto il materiale raccolto per preparare un film sentimentale-politico (Il presidente: una storia d’amore), con l'obiettivo di raccontare la vita nelle stanze del potere del palazzo più importante del mondo: La Casa Bianca. Nasce cosi West Wing, la serie che ha totalmente rivoluzionato il mondo della serialità americana. Potrebbe sembrare esagerato parlare di rivoluzione, ma quello compiuto da Aaron Sorkin (questo il nome del talento che sta dietro a tutto questo) è un vero e proprio lavoro sovversivo. Per la prima volta, infatti, si scrive una storia a lungo respiro che non ha niente a che fare con omicidi, casi da risolvere o dinamiche sentimentali. Qui il tema centrale  non è altro che la politica. Chi avrebbe mai detto che qualcuno poteva rendere, non solo digeribile, ma addirittura affascinante per un vasto pubblico internazionale temi come il disarmo nazionale, i deficit economici e le dinamiche congressuali? Eppure West Wing riesce in tutto questo con successo. Sorkin, come farà nel suo clamoroso The Social Network con algoritmi e l’informatica in generale, prende degli argomenti borderline (spesso etichettati come iniziatici o peggio, mortalmente noiosi) e a piegarli alle sue esigenze drammatiche. E cosi un semplice spettatore che magari non sa nemmeno il nome del deputato che lo rappresenta in Parlamento si appassiona alla conferma di un giudice della corte suprema o all’approvazione di un progetto di legge finanziaria come fossero le avventure amorose di una giovane protagonista di una soap. 
Il lavoro di Sorkin però non si limita solo a una semplice operazione di "abbellimento" del tema politico. Lo sceneggiatore americano confeziona un' America "parallela", dove si è lontani anni luce dal “regno di terrore” messo in piedi dai neo-con e dal loro alfiere Bush. Gli Stati Uniti di Sorkin sono una terra, con le proprie contraddizioni e limiti, dove tutti vorrebbero vivere grazie all’uomo che la guida, il presidente Jed Bartlet. Bartlet (Martin Sheen) può essere considerato un Roosevelt redivivo, alterego vincente di Bill Clinton: democratico, progressista, leader
deciso, dal carisma spropositato ma con un'umanità che lo rende un saggio padre per tutti i suoi collaboratori. Un presidente testardo nelle proprie battaglie ma che grazie a consigli intelligenti arriva sempre alla soluzione giusta. Insomma, il capo di stato che chiunque vorrebbe avere. Questo non deve far pensare, però, che l’intera serie sia cannibalizzata da un personaggio tanto carismatico. L’autore, intorno al presidente, mette insieme una “corte” di consiglieri che si dimostra la vera protagonista della storia. Chiusi tra corridoi stretti ed uffici sempre disordinati, condannati da orari lavorativi disumani, incontriamo “le menti più geniali del loro paese” (definizione che viene ripetuta in diverse puntate). Ci sono l’autoritario capo dello staff  Leo McGarry (John Spencer), il suo vice geniale (l'unico analista politico a cui le ragazze chiedono autografi!) Josh Lyman (Bradley Whitford), il bellissimo Sam Seaborn (Rob Lowe), il burbero Toby Ziegler (Richard Schiff) e la tenace portavoce C.J. Cregg (Allison Janney). Senza contare l’immenso gruppo di segretarie, assistenti e consiglieri esterni (su tutte la Donna Moss di Janel Moloney con i suoi meravigliosi scontri verbali con il capo Josh), quella dello staff presidenziale non è un gruppo di persone messe insieme per raccomandazioni e mosse unicamente dai propri ambiziosi tornaconti personali (come, presumibilmente, è nella realtà) ma una grande famiglia impegnata unicamente per il bene della nazione e del suo presidente. Questi personaggi, forse irreali, sono tratteggiati con cosi tanto amore che è impossibile non empatizzare con essi e legare totalmente i loro nomi a quei corpi. west wingE ciò non avviene solo con volti poco noti come quelli di Richard Schiff e Bradley Whitford (che tornerà a lavorare con Sorkin in Studio 60 and Sunset Strip) ma anche con il molto più celebre Martin Sheen che dopo i capolavori fatti (Apocalypse Now, La rabbia giovane) con il suo presidente Bartlet regala un personaggio che è entrato nell'immaginario collettivo. Sarebbe disonesto, però, non indicare anche i difetti (se cosi vogliamo definirli) della serie. Va detto che West Wing è segnato da un profondo manicheismo. Infatti il messaggio principale che viene veicolato è che il Partito democratico (e soprattutto le sue correnti più radicali) è una specie di Justice League, mentre il partito repubblicano è tratteggiato come l’impero del male, formato da bigotti, pseudo fascisti e fanatici violenti. Anche per chi è totalmente in linea con le idee dei protagonisti risulta decisamente poco credibile vedere gli avversari politici demonizzati in toto come se fossero "l'armata delle tenebre". Ed è proprio questo punto forse l’errore più grande di Sorkin. Enfatizzare il ruolo di Eroi (nelle puntate avviene molte volte che, quando c’è la tentazione di fare qualche operazione poco limpida, "alla repubblicana" per intenderci, c'è qualcuno che dice: "Non possiamo farlo, noi siamo i buoni!") è francamente approssimativo. Come è approssimativo vedere che molti nemici politici, anche i peggiori, di fronte alla buona volontà e all’entusiasmo “liberal” dei nostri protagonisti si convertono come fulminati sulla via di Damasco. Stesso discorso va fatto anche per l’invincibilità delle battaglie presidenziali che, per quanto difficili ed estremamente progressiste, vanno sempre in porto, rendendo lo staff presidenziale immune da sconfitte e delusioni.

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