SFashion, di Mauro John Capece

Gli ultimi minuti del film fanno intravedere quello che sarebbe potuto diventare SFashion con un minimo di autocontrollo e disciplina, perché Capece dimostra di avere il senso dell’inquadratura

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Scene di crisi in bassa Val Vibrata. La terza opera del regista Mauro John Capece nasce dall’esigenza di raccontare la via crucis professionale di una imprenditrice del ramo tessile che a poco a poco vede crollare l’impero fondato dal nonno. Le intenzioni sono sincere e il comparto tecnico è di alto livello: virtuosismi con la macchina da presa, dissolvenze incrociate, arditi grandangoli, lunghe carrellate all’interno della fabbrica, vertiginose plongée. Colori alla Almodovar e inquadrature sottosopra alla Sorrentino con un sottofondo musicale che parte dal Lilì Marlene e La Vie en Rose per finire nella canzone napoletana. Un trionfo del barocco che ha il nadir nella scena in cui la protagonista Evelyn (interpretata da Corinne Coroneo, co-sceneggiatrice) prova un duetto improbabile con l’ulivo Antoine declamante il proverbio “Mors tua, vita mea”.
Restiamo ammirati dal gusto estetico di Capece che ha il senso dell’inquadratura e anche una notevole conoscenza della grammatica filmica (si pensi alle scene all’interno della fabbrica semideserta, alla ripresa dall’alto nella sala riunioni, a quelle subacquee) ma anche una spiccata tendenza a sconfinare nel trash e nel luogo comune neo-televisivo (i flashback della infanzia con Bartolomeo, gli incubi dietro le sbarre di una prigione, le urla di protesta dei dipendenti, i rimproveri del nonno). Nel momento in cui i vari personaggi interagiscono dialogando, crolla tutta l’impalcatura estetica e scivoliamo in una esibizione ridondante di emozioni, senza alcun filtro razionale.

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Il tema è talmente scottante che il tono surreale e grottesco perde subito vigore trasformandosi in un melodramma da soap opera sudamericana. C’è pure un intermezzo cristologico in cui viene riproposta la via crucis della protagonista con tanto di croce e corona di spine. Insomma sembra di essere in un film di Pappi Corsicato ma senza l’ironia e l’autocritica dell’autore napoletano.
La presenza di Randall Paul (Eyes Wide Shut, Mission:Impossible, Quattro matrimoni e un funerale) se da un lato dà un tocco di internazionalità all’operazione dall’altro ridimensiona nel confronto le prove degli altri attori. Gli ultimi minuti del film fanno intravedere quello che sarebbe potuto diventare SFashion con un minimo di autocontrollo e disciplina: prima un emozionante campo lungo e poi una bellissima ripresa dall’alto che conclude la via crucis. Invece pensiamo ai litigi in sala riunioni o all’infarto di Bartolomeo e sembra di cadere in un ciclico deja-vù. Quello che poteva essere una intelligente costruzione surreale sulla deriva etica della neo-borghesia in tempi di crisi economica si trasforma in un insipido tentativo di mescolare il sacro con il profano. In questa confusione di generi e mancanza di una precisa direzione ci si ferma alle prime stazioni del calvario, senza possibilità di resurrezione.
Nel sottofinale si filosofeggia con il pessimismo leopardiano sulla natura matrigna che costringe al dolore sin dalla nascita. I sensi di colpa e i rimorsi della imprenditrice Evelyn sono un vestito di lustrini che mal si adatta a un personaggio che spesso stenta e inciampa nel comunicare disagi e disillusioni.
Ci vengono in mente due bei film sulla regressione economica e culturale del nostro Paese: Il Capitale Umano di Paolo Virzì e Giorni e Nuvole di Silvio Soldini. Per SFashion restiamo ancora a pensare a ciò che poteva essere e non è stato.

Regia: John Mauro Capece
Interpreti: Corinna Coroneo, Giacinto Palmarini, Andrea Dugoni, Randall Paul
Origine: Italia, 2017
Distribuzione: Imago
Durata: 94′

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