Shut In, di Farren Blackburn

Il limite di Shut In non è la claustrofobica ambientazione domestica. La storia non sa gestire il tempo cinematografico e tenta di superare la dimensione televisiva copiando dei modelli troppo famosi

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Il cast di Shut In attira sicuramente l’attenzione non soltanto per la presenza della star Naomi Watts. Il nome di Charlie Heaton si è fatto notare per l’acclamato serial Stranger Things. Il volto di Jacob Tremblay ha contribuito all’Oscar che è stato consegnato a Brie Larson per Room di Lenny Abrahamson. Le attese vengono rapidamente tradite ma c’è pur sempre una tipologia di spettatore che potrebbe appassionarsi al film. La produzione dovrebbe confidare nell’ingenuità di qualcuno che si trovasse davanti al primo thriller della sua vita. Invece, la platea più smaliziata capisce il meccanismo dopo aver assimilato senza particolari affanni i brividi dei primi minuti. A quel punto, può solo passare il resto del suo tempo a contare le sfacciate citazioni per scacciare la sensazione di deja vu.

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shut-inLa firma di Farren Blackburn rappresenta l’ennesima compartecipazione di cinema e televisione ma questa volta la bilancia pende eccessivamente verso il piccolo schermo. Il regista proviene da qualche episodio di Doctor Who e di Daredevil ma è soprattutto l’idea di partenza della storia che meriterebbe uno svolgimento breve e non quello di un lungometraggio. Il cast dovrebbe aumentare automaticamente la sua dimensione ma non c’è un ancora di salvezza quando anche il talento di Naomi Watts esaurisce le sue risorse e scade nella ripetitività. La necessità di salvaguardare il tiepido colpo di scena finale impone di non rivelare l’identità del villain. Tuttavia, è sufficiente dire che l’attore che dovrebbe sorreggerne il peso non è all’altezza della situazione e quindi ne disperde le possibilità. La sua versione della follia omicida manca di personalità e si appoggia spudoratamente all’imitazione di esempi più affermati.

shut-in-naomi-wattsLa nota più fastidiosa di Shut In è il modo in cui i luoghi comuni e le situazioni scontante del thriller non vengono presentati come degli omaggi devoti. La sceneggiatrice britannica Christina Hodson è finita per tre volte nella Black List dei migliori script non prodotti e questo è il suo primo copione che viene effettivamente realizzato. Il suo soggetto claustrofobico non ha la colpa di perdersi negli stereotipi ma quella di lavorarli come se fossero di prima mano e come se lo spettatore dovesse prenderli sul serio. Il film prova a bluffare ma anche lo spunto della persona misteriosa che sembra vivere nei muri della casa è plagiata da The People Under the Stairs di Wes Craven. La messa in scena non viene incontro agli sforzi della storia e Farren Blackburn fallisce nel distribuire la tensione attraverso la gestione dello spazio chiuso della villetta nel bosco. Le sue scelte non riescono a spezzare il limite dell’ambientazione domestica e a rovesciarlo in una virtù. La difficoltà della protagonista di venire creduta nelle sue paure viene da Rosemary’s Baby di Roman Polanski. Il suo isolamento dovuto ad una bufera e il suo tentativo di scappare cancellando le orme sulla neve richiamano senza pudore The Shining di Stanley Kubrick. Il momento in cui si nasconde dentro un armadio a muro e osserva l’assassino attraverso le fessure delle ante proviene da Halloween di John Carpenter. Lo scontro finale tra la vittima e il carnefice avviene su un molo che assomiglia troppo a quello del Crystal Lake di Friday 13th di Sean S. Cunningham. La lista dei modelli presi in prestito senza permesso potrebbe essere ancora più lunga ma questo breve elenco basta per suggerire ai due giovani protagonisti di prendere delle scelte migliori in futuro.

Titolo originale: Shut In

Regia: Farren Blackburn

Interpreti: Naomi Watts, Charlie Heaton, Jacob Tremblay, Oliver Platt, David Cubitt

Distribuzione: Notorious Pictures

Durata: 91′

Origine: USA/Canada, 2016

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