SICILIA QUEER FILMFEST 2012 – Festival Internazionale di Cinema GLBT e Nuove Visioni (Terza Parte)


Le commedie queer Let My People Go! (scritta da Cristophe Honoré) e Bad Boy Street, i documentari intimi Orchids – My Intersex Adventure e Morir de Pie che hanno colpito di di più l’immaginazione, e commosso e turbato attraverso la semplicità dirompente di alcune testimonianze dirette, l’ultimo film di Eloy de la Iglesia, Los novios bulgaros, i cortometraggi premiati Utopies e Dildotettonica per principianti

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Let my people go! è il debutto al lungometraggio per Mikael Buch. Il film si avvale della scrittura di Cristophe Honoré che avrebbe dovuto regalare quella densità melodrammatica tipica di altri film di Honorè, sia sceneggiati che firmati da regista. Non fosse altro che l’inizio è dei più promettenti con una scena stralunata alla Kaurismaki che si avvale dei colori surreali della fotografia tipici del cineasta finlandese. Non è un caso che proprio la prima sequenza sia ambientata in Finlandia. E poi la presenza sempre magica di Carmen Maura a suggerire quelle sottigliezze della commedia spumeggiante almodovariana, sentimento e ipotesi che qui cerca di emergere, ma affievolendosi con il passare dei minuti, sotto il peso anche di inutili contorsioni narrative costruite con l’obiettivo di gag, però poco riuscite. Ben diverso l’approccio di Bad Boy Street, una grande lezione da parte di Todd Verow, autore sperimentale, sul fatto che per fare cinema bastano un piccolo appartamento per girare gli interni e pochissimi esterni, che sono efficaci per far respirare l’atmosfera di un quartiere di Parigi, quello di Pigalle, rue de mauvais garçons (che dà il titolo al film), con in primo piano il Moulin Rouge. La storia raccontata da Verow è semplicissima: l’incontro fra due uomini, il francese Claude e l’americano Brad. Terzo protagonista l’amica di Claude, Catherine. Verow filma in modo esplicito l’erotismo fra Claude e Brad, e riesce soprattutto a raccontare la nascita di una grande passione che si confronterà con le scelte di vita, soprattutto di Brad. Il film è presentato in anteprima mondiale e sicuramente riuscirà ad interessare il pubblico per la sua forza emotiva, per il coinvolgimento affettivo dei personaggi, per la capacità di descrizione di uno spazio privato che si fonde con l’immaginario degli stereotipi dei due popoli americano e francese. Quelli che riguardano l’alimentazione, uova e salsicce a colazione per il tipico statunitense e croissant e vino per il francese. Anche il cinema polpettone e blockbuster è criticato apertamente. Claude dice che il film di Brad fa schifo e lui risponde che lo sa ma che ha fatto un sacco di soldi. Considerazioni che si fondono in modo perfetto nella scrittura del film.

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Come dicevamo nei precedenti contributi, sono stati i documentari a colpire di più l’immaginazione, a commuovere e turbare attraverso la semplicità dirompente di alcune testimonianze dirette. Con My intersex adventure, la regista Phoebe Hart intende fare un outing spesso negato, quasi impossibile. Non a caso la regista all’inizio del film conferma che la sua condizione di ermafrodita è pressoché sconosciuta nella cultura contemporanea. L’ermafrodita non ha alcuna identità, né forse può averne nei costumi rigidi di una società che ha impostato la vita sulla dogmatica divisione eterosessuale tra maschio e femmina. Così la Hart pensa di andarsene in giro per tutta l’Australia alla ricerca di persone nella sua stessa condizione, per raccogliere le loro testimonianze. Il film mette in scena la sconcertante difficoltà di scoprire l’intimità della propria famiglia, con la ritrosia dei genitori che alla fine decidono di offrirsi alle interviste, confermando che il valore aggiunto della loro parola era troppo importante per essere dimenticato. Che siano degli atti di liberazione, di un risveglio, di una concessione alla figlia per portare a termine il suo documentario, tutte queste testimonianze sono la prova di un cammino in atto in quel processo di liberazione dal velo che molti esseri umani subiscono già alla loro nascita e poi, a seconda del loro orientamento sessuale. Ancora più dolente, quasi insopportabile, è la ruvidezza di Morir de pie, di Jacaranda Correa. La storia di Irina Layevska è la storia di tutti noi. La storia di chi alla ricerca di se stesso si chiede anche il senso e la possibilità di un uomo nuovo. Un uomo nuovo che può sorgere dalle stesse vicende private. Dalle difficoltà e dalla storia incredibile e terribile allo stesso tempo che si affrontano ogni giorno. E la vita di Irina Layevska è stata proprio questo: affrontare ogni giorno l’evoluzione della malattia, la sclerosi multipla, che costringeva gradualmente alla paralisi sulla sedia a rotelle. Layesvska in questa fase ha anche compreso la sua autentica identità, e pur essendo sposato a Nélida Reyes da uomo, ha deciso di diventare donna. Irina ha affrontato tutto questo in una condizione impossibile, laddove era impensabile costruire il proprio sé con una transizione che ha dell’incredibile. Incredibile per la forza di volontà, incredibile per le persone che gli stanno intorno e soprattutto Nélida che gli rimane accanto. Un amore verso la vita che supera davvero le barriere di tutto. E quando vediamo Irina scrivere sulla tastiera di un pc con una penna tenuta in bocca, rimangono solo le lacrime di commozione, di fronte ad una serie di atti quotidiani che scandiscono una vita in cui la forza di volontà occorre ad ogni istante. La bellezza del film è ancora più accecante quando la stessa Irina parla della sua vita o semplicemente è in silenzio nella sua casa, impegnata in uno di quegli atti che sembrano semplici, come mettersi il reggiseno, e per lei si traducono in minuti di lotta e sofferenza. Morir de pie è anche la dimostrazione che quando si ricercano grandi ideali rivoluzionari, si può guardare anche alle grandi figure del passato, come in questo caso Che Guevara, ma occorre sempre non lasciarsi offuscare dalle ideologie. L’unica strada verso l’autenticità è dentro noi stessi. Irina ha percorso questa strada e in qualche modo il suo insegnamento è perfino più importante di una grande rivoluzione della Storia. 

La presenza dell’ultimo film di Eloy de La Iglesia, Los novios bulgaros (2003), ha arricchito il programma e forse aperto le porte a un possibile omaggio prossimo ad un grandissimo cineasta scomparso nel 2006 e la cui filmografia rimane in gran parte inesplorata soprattutto in Italia. Los novios bulgaros conferma la lucidità del regista spagnolo, 

la capacità di raccontare storie comuni che spesso si avvitano verso epiloghi drammatici, passando attraverso il crimine, che per la Iglesia è quasi una forma “inevitabile” dell’espressione umana con incredibile varietà di prospettive, come non ricordare il surrealismo tragico splatter di La semana del asesino.

Tra i cortometraggi italiani non in concorso numerose delusioni, con l’eccezione del premiato Dildotettonica per principianti di Silvia Corti, ottima prova di liberazione da ogni pregiudizio sessuale, l’inno al piacere richiama le teorie postporno di Beatriz Preciado e trova compimento in una ragazza bizzarra e selvaggia che cerca il piacere come allegra (ri)scoperta della vita di tutti i giorni. Utopies di Manfred Rott ha vinto la selezione internazionale di cortometraggi, una convincente prova di stile e forma cinematografica che si avvale di sorprendenti interpreti e di una efficace documentazione della banlieue parigina, come in uno studio di archeologia delle architetture urbane.
 

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