Sicilia Queer FilmFest 2017 – Don’t look at me that way

La regista/attrice si denuda letteralmente davanti alla macchina da presa e mescola Cassavetes e Polanski con la naturalezza di un’artista navigata. Nella sezione Nuove Visioni

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Uisenma Borchu è una regista originaria della Mongolia ed è naturalizzata tedesca. E’ anche attrice, sceneggiatrice e montatrice del suo primo film dal titolo Don’t look at me that way che è stato presentato in concorso al VII Queer Film Fest a Palermo nella sezione nuove visioni. Lo stile della Borchu è altamente destabilizzante: riprese a spalla, pedinamenti, bruschi shortcuts a frammentare la narrazione. E poi tentativi di depistaggio dello spettatore che inizialmente non riesce bene a identificare il rapporto tra la piccola ariana Sophia e la vicina di casa Hedi dai tratti inequivocabilmente asiatici. Questa stridente differenza di razza si riflette in una opposta filosofia di vita tra la madre single di Sophia Iva (Catrina Stemmer) e la stessa Hedi: una è timida, introversa, insicura di sé, soggiogata da una figura paterna ingombrante anche se assente; l’altra è bisessuale, egocentrica, spavalda nel rapporto sessuale condotto sempre in posizione di dominanza. Questo triangolo affettivo si nutre di improvvise impennate e altrettanto brusche ricadute: la piccola riconosce in Hedi la figura d’autorità, surrogato di quella paterna, e le si avvicina in maniera quasi morbosa come la gallina della favola mongola. Ma c’è in agguato Edipo e tutte le sue complicanze proprio quando irrompe sulla scena l’unico attore professionista Grosvater (Joseph Bierblicher) il papà di Iva, uomo disilluso che cita il disincanto dell’amore perduto in una poesia di Brecht. La patologia psichiatrica di Hedi si manifesta prima a tratti nelle gelosie possessive, nei lunghi incontri sotto la tenda della nonna, nella richiesta di atipiche prestazioni sessuali a maschietti un po’ imbranati e poi esplode nel sottofinale con la improbabile ricomposizione nel lettone della sacra famiglia, estremo sfregio alla povera Iva. La regista/attrice si denuda letteralmente davanti alla macchina da presa e mescola Cassavetes e Polanski con la naturalezza di un’artista navigata. La bambina regala più di un momento di verità (stupenda la scena delle prove allo specchio con il rossetto) e tra Iva e Hedi si crea una empatia che buca letteralmente lo schermo. Con una scelta meditata e coraggiosa, la Borchu improvvisa senza sceneggiatura ed evita ogni tentazione paesaggistica o sociopolitica relegando Monaco a piccoli sprazzi di neon notturni. Bisessualità e omosessualità vengono portate in primo piano con una sfrontatezza fatta più di silenzi che di immagini forti. La tempesta emotiva che ha come epicentro i due appartamenti si autoalimenta nella solitudine delle quattro mura: finchè non sai più se quello che è successo è solo un tuo desiderio represso o l’ennesimo incubo di una notte alcolica. Moltissimi primi piani, numerose sfocature, sospiri e lacrime e poi quella geniale mescolanza tra realtà e finzione portata coerentemente fino all’ultima inquadratura. Come ne I Diabolici di Clouzot, padre e figlia cercano di farsi sommariamente giustizia nella vasca da bagno in una scena violenta e gelida nella sua fredda esecuzione. Il vuoto affettivo di Iva e Sophia viene travolto dalla follia megalomane di Hedi tutta tesa a soddisfare i propri bisogni primari. A volte per le persone ipersensibili basta uno sguardo storto per scatenare l’inferno. Che cosa resta di tutti questi amori? Citando Brecht solo quella giornata in cui una nuvola aveva oscurato il sole. Ci si volta indietro a cercarlo ma è già sparito.

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