Sotto il segno della rottura: "Closer" di Mike Nichols

Il film di Nichols è di quelli da custodire gelosamente dentro di sé in questo 2004, capace di “distruggere” magnificamente quella carriera costellata di furbizie di gran classe e cult provocatorii.

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Si parla continuamente del desiderio di sesso ma si vedono solo baci. Se a 73 anni Hitchcock riuscì a girare Frenzy, film di geniale crucialità che scoperchia la magnifica brutalità degli anni 70 con una violenza ancor oggi inaudita per un regista che stava in disparte nel cortile del collegio dei gesuiti a guardare gli altri bambini giocare, si sposò vergine e visse monogamo, nacque col muto e fu costretto a lottare tutta la vita artistica per nascondere quello che solo la folgorante mente critica di Truffaut scoprì alla fine della sua carriera, durante una celebrazione all'American Film Institute dei suoi "tranches de gâteau" (mai fette furono più dolci…), ovvero che sir Alfred aveva girato "tutte le scene d'amore come scene d'omicidio e tutte le scene di omicidio come delle scene d'amore", alla stessa età Nichols con questo straordinario "Closer", uno dei film da custodire gelosamente dentro di sé in questo 2004, "distrugge" magnificamente quella carriera costellata di furbizie di gran classe e cult provocatorii. Una distruzione operata nel segno dell'inavvertibilità: di luoghi comuni sessuali, amorosi, verbali, comportamentali. Se l'impianto situazionale è già apparso mille e più volte al cinema, logorato dall'uso, qui sembra di vederlo per la prima volta all'opera, gravido di primigenia freschezza. Riuscire ad infangare quell'affilato, commovente viso da Bambi di Julia Roberts con terribili insulti senza provocare il minimo sussulto di difensivo sdegno nello spettatore targetizzato sulla "Roberts-pura" (e siamo sicuri, anche nello sfegatato fan robertsiano che sa guardare il cinema) è già un miracolo che scopriamo necessario nel momento stesso nel quale si materializza sullo schermo e che varrebbe una carriera di direttore d'attori. Ma la prestazione dell'(anti)-lolitiana Natalie Portman, percorsa da aguzze acerbità ed eburnee maturità, quasi annulla il prodigio nicholsiano sopracitato, rilanciandolo ad altezze ancor più "grattacieliche". Come ogni grande film Closer non spreca neanche un metro della propria pellicola, "dissipandosi" subito della propria matericità nei magistrali ralenti che lo aprono e lo chiudono come le valve di una perlacea ostrica: corridoi dello sguardo e del senso, impreziositi senza esserne sbilanciati dal bellissimo pre-finale ed esaltati da ciò che sta in mezzo, da quel ripieno di gravida e volgare (per una volta da intendersi "per il volgo" ovvero "per tutti") densità dei dialoghi nei quali la sincerità lava con la velocità di uno schiaffo purificante il sospetto di banalità e sottrae protagonismo alle splendide ambientazioni e agli stessi attori che le pronunciano, trovando ulteriori esaltazioni nell'uso inusitato della musica come perfettamente esplicita la scena della porno-chattata. Se vi si guarda con mente libera non vi si trova traccia della furbizia (d'antologia) che attraversa tanta parte della filmografia nicholsiana, come pure del quasi inevitabile legame con la scaltrezza soderberghiana di Sesso, bugie e videotape, ed è una qualità che non finisce di stupire in questo film, potente esempio di un cinema che polverizza la propria autorialità nel segno di una costante sfida a sé stesso, che attenta ogni istante alla propria fragilità con una sensibilità feroce e inappuntabile, morte al lavoro che vorremmo non timbrasse mai il cartellino di fine turno.

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