SPECIALE DARIO ARGENTO – L’horror che diventa mèlo: "La sindrome di Stendhal"

La sindrome di StendhalOpera di snodo nel percorso artistico che ha connotato l’ultimo Argento: un thriller astratto e attento maggiormente alla sostanza intima dei personaggi, all’esplorazione di un sentimento, a una deriva melodrammatica, che tenta di rovesciare la pulsione estetica dell’omicidio inquadrandola dalla prospettiva della vittima. Leggi tutti gli articoli dello speciale

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Interpreti: Asia Argento, Thomas Kretschmann, Marco Leonardi, Luigi Diberti, Paolo Bonacelli

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Durata: 120’

Origine: Italia, 1996

Distribuzione: Medusa Video

 

Nel 1996 Dario Argento, ispirato dalla lettura del libro “La sindrome di Stendhal”, di Graziella Magherini, torna a dirigere un film in Italia, dopo la parentesi americana di Due occhi diabolici e Trauma, accolti con scarso favore dai fans della prima ora: in realtà anche La sindrome di Stendhal doveva essere inizialmente girato negli Stati Uniti, con protagonista Bridget Fonda, ma, in seguito, la consapevolezza di come l’Italia fosse il luogo più adatto per una storia che vede nell’arte e nei monumenti una importante fetta della sua ragion d’essere fece cambiare idea al regista romano, che per l’occasione si avvalse nuovamente della figlia Asia come interprete (la conseguenza fu però una penale da pagare per rompere il contratto nel frattempo firmato con i produttori americani).

 

A posteriori la scelta ha una sua coerenza se consideriamo come La sindrome di Stendhal si inserisca all’interno di un percorso che vede Argento avvalersi della figlia soprattutto per tentare una nuova strada, meno legata ai meccanismi di quel genere thriller ch’egli stesso aveva contribuito a disfare e a rifondare, e più attenta alla sostanza intima dei personaggi, all’esplorazione di un sentimento, a una deriva che oggi possiamo definire tranquillamente melodrammatica e che, iniziata con Trauma, è poi proseguita con il meno riuscito Il fantasma dell’Opera e il più recente Il cartaio (sebbene non siano esenti anche alcuni passaggi di Non ho sonno). Ma il tutto è comunque svolto dall’interno di quel sopracitato genere: siamo infatti di fronte a un rovesciamento di prospettive, dove la pulsione artistica che aveva animato i primi capolavori del regista e che lo aveva portato a teorizzare un’estetica affascinante, libera e affascinata per l’omicidio (come spiegato nel prologo di Tenebre) stavolta rivolge il suo sguardo all’altra faccia della medaglia, quella della vittima. E’ la vittima stavolta a divenire il centro delle attenzioni dell’autore e dell’esteta, e il tentativo è quello di riflettere emotivamente e visivamente il confuso stato di chi il terrore lo subisce anziché esercitarlo.

 

Il percorso è per questi motivi più tortuoso del solito: Argento cerca di non scontentare gli amanti del meccanismo e la pubblicistica che rilancia il suo “ritorno al giallo”, attraverso alcuni innesti puramente thriller (con marcati echi depalmiani, collega amato/odiato dal nostro) che conferiscono alla vicenda un ritmo franto, tanto da alienargli molti sostenitori; allo stesso tempo però il film possiede una vena lirica e poetica di rara forza espressiva: in campo entrano una serie di forze opposte (la violenza, il desiderio, ma anche l’amore e la compassione) e di sfere emotive (lo spaesamento di Anna contro l’aggressività di Alfredo, i timori di Marco e la dolcezza di Marie) che collidono tra loro, donando potenza e nervosismo alla pellicola. E’ un fluire incessante di pulsioni inquiete, che corrono sottotraccia e conferiscono al film una matrice espressionista, esaltata dalle sequenze oniriche che teorizzano una estetica dell’essere vittima, del subire “artisticamente” la condizione di subalternità: in questo senso Asia Argento si rivela una scelta perfetta poiché capace di donarsi completamene al film, di diventare la tela per le sperimentazioni del regista, che ne fa un’agitata opera vivente (emblematica nella sua comunione di pietà e inquietudine la scena in cui Anna si “dipinge” il corpo e si rannicchia in posizione fetale).

 

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Asia ArgentoAsia è dunque il corpo del film, la sua energia e il suo fine, destinata non a caso a trasformarsi essa stessa in una sorta di Pietà michelangiolesca nell’ultima inquadratura, dopo un intero film in cui l’abbiamo vista mutare pelle, attraversare sensazioni difformi e assumere su di sé una poliedricità di sentimenti che stordiscono letteralmente lo spettatore. Uno stordimento che sopravanza alcune pecche oggettive della pellicola (la recitazione poco convinta di Marco Leonardi, una fotografia meno incisiva del solito, il già citato ritmo poco compatto) e ci restituisce forse l’opera più appassionante fra le ultime di Argento.

 

 

Curiosità

 

Dopo alcuni anni si rinnova la collaborazione tra Dario Argento e il compositore Ennio Morricone, che aveva collaborato ai primi film del regista.

Pare che il personaggio di Anna Manni dovesse tornare nel Cartaio, ma in seguito all’indisponibilità di Asia Argento la protagonista prese il nome di Anna Mari (interpretata da Stefania Rocca).

Il film è stato distribuito negli Stati Uniti nientemeno che dalla Troma Film, celebre studio diretto da Lloyd Kaufman e specializzato in cinema trash (fra i suoi cult la saga di Toxic Avenger).

La Sindrome di Stendhal è il primo film italiano a fare uso di effetti speciali digitali, affidati al collaboratore di fiducia, Sergio Stivaletti.

 

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