SPECIALE IL PONTE DELLE SPIE – Storie di uomini morali tra Spielberg e Sokurov

Dall’ultimo Spielberg a Francofonia mai come oggi autori di cinema tanto diversi sembrano voler raccontare la possibilità di uno scambio, di un dialogo (im)possibile tra uomini morali.

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Jim Donovan e Rudolf Abel

Il ponte che dà il titolo all’ultimo film di Spielberg non è soltanto quello berlinese di Glienicke, dove avviene lo scambio tra Rudolf Ivanovich Abel e Francis Gary Powers, ma quello umanistico e quasi invisibile che mette in comunicazione due uomini e due morali. Tutta la prima parte del film è infatti giocata sull’incontro tra la spia russa e il suo avvocato difensore Jim Donovan. Siamo nel 1957 in un’America dilaniata dal maccartismo e dallo spettro del Comunismo. C’è la Guerra Fredda tra due mondi e visioni sociali agli antipodi. Ci sono spie dall’una e dall’altra parte. Soldati che eseguono gli ordini, uomini che l’opinione pubblica delle fazioni opposte vorrebbero vedere giustiziati in modo esemplare. Jim Donovan crede nella costituzione americana e nei valori dei padri fondatori. “È la sola cosa che ci tiene insieme” ricorda, lui di famiglia irlandese, all’agente della CIA di origini tedesche Hoffman in una scena esemplare. In un Paese democratico Abel ha diritto alla miglior difesa possibile e di fronte a questo principio Donovan, pur sapendo della colpevolezza del suo assistito, mette in gioco tutto se stesso per salvarlo dalla sedia elettrica. Presto diventa l’americano più odiato del Paese, ma proprio la sua lungimiranza culturale e diplomatica si rivelerà decisiva quando l’americano Powers, pilota dell’aereo spia U2, cadrà nelle mani di Mosca rendendo plausibile l’ipotesi di uno scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Ne Il ponte delle spie l’arguzia politica improvvisata da Donovan trascende la contingenza storica. L’avvocato interpretato da Tom Hanks si presta alla difesa di Abel prima e ai negoziati di Berlino poi, per inseguire con tutti i mezzi dialettici a sua disposizione l’utopia di un’etica antiideologica fondata sul rispetto del “nemico” e sui diritti dell’uomo. In questa missione filantropica il punto di partenza e di arrivo è rappresentato dall’onorabilità imperturbabile di Rudolf Abel. L’incontro tra i due è scandito soprattutto dal riconoscimento di un’alterità che è innanzitutto dialogo morale. La rappresentazione di Abel – magnificamente incarnata da Mark Rylance – non ricalca i canoni dell’agente segreto, quanto quelli del burocrate comune che esegue gli ordini con la rettitudine e la passionalità di un amanuense. È un pittore che ascolta Shostakovich e attende il proprio destino con dignità ammirevole. Donovan e Abel si riconoscono in quanto esemplari di valori che trascendono la politica e la Storia. “Per me lei è sempre stato soprattutto un artista” confida non a caso Donovan alla spia sovietica.

Jacques Jaujard e Wolff-Metternich

francofonia

Francofonia (Aleksandr Sokurov, 2015)

 

Anche Aleksandr Sokurov in Francofonia racconta qualcosa di simile. Nel suo viaggio attraverso il Tempo nei meandri del Louvre, il regista russo trova il modo di raccontare la piccola storia di un incontro che i libri hanno dimenticato. È il momento peggiore per l’Europa e il mondo occidentale: i nazisti nel 1940 entrano trionfanti a Parigi e si prendono il Louvre. Il responsabile dei beni artistici della Francia occupata è il gerarca nazista Wolff-Metternich, uomo di cultura e di discendenza nobile che si trova a mediare con il direttore del museo, il francese Jacques Jaujard. Sokurov si immagina questi due personaggi delle classi alte mentre cercano di costruire metaforicamente un ponte impossibile tra Paesi rivali durante la Seconda guerra mondiale. Fanno riunioni, si incontrano nelle vie deserte della capitale francese. Parlano di arte? Cercano di preservare la tradizione europea e la storia dell’uomo dalla distruzione e dall’abominio? Nella ricostruzione di un finto reportage Wolff-Metternich e Jaujard incarnano soprattutto l’ideale di un’umanità che travalica ancora una volta gli schieramenti di razza e ideologia. Qui in modo meno sfumato che in Spielberg i valori che uniscono i due piccoli eroi sokuroviani sono quelli della tradizione alta, di un’Europa che deve recuperare la radici civili e culturali. La Storia sovrasta le loro azioni, eppure Jaujard e Metternich riescono a parlare. Dimostrano la possibilità di un’intesa che porta quantomeno alla salvezza delle opere d’arte. Sokurov crede talmente tanto nelle radici della tradizione che può riporre fiducia solo ed esclusivamente nell’uomo etico. Nel suo cinema la visione comunitaria di un dialogo è possibile “soltanto” su un livello alto, ambiguamente elitario. In quanto europeo russo predilige una moralità più intellettuale (ed estremizzata) rispetto a quella spielberghiana. Eppure mai come oggi autori di cinema tanto diversi sembrano voler mettere al centro della Storia l’essere umano, raccontandone la possibilità di uno scambio, di un dialogo (im)possibile tra uomini morali.

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