SPECIALE MOTHER’S DAY – Interior design

Marshall è ancora capace di far sprigionare cortocircuiti alla macchina dai quali il cinema è libero di sgorgare, per inondare tutti i set e trasformarli in luoghi magici, sospesi, intimi e irreali

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In un istante rivelatorio tra gli outtakes che come d’abitudine Marshall inserisce sui titoli di coda almeno da Appuntamento con l’amore, Julia Roberts stanca di mantenere la posa sognante-riflessiva mentre solitaria al tavolo di un ristorante guarda un convoglio passare fuori dalla finestra, sbotta “ma quanto cazzo è lungo questo treno???”.
E’ un momento talmente straordinario che sembra scritto, e rinnova la sensazione di familiarità che ritrovi nel rapporto, spontaneo fino alla commozione, che Marshall è in grado puntualmente di imbastire con le sue interpreti. La luce dello sguardo del cineasta sa posarsi su queste attrici con un amore giovane quanto un innamoramento appena sbocciato, un gesto filmico che continua davvero a farci gridare alla benedizione.

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In questo caso siamo in un casello ferroviario che i gestori del “The Crossing” di Atlanta hanno trasformato in una steakhouse, e il locale sta giusto per diventare il palco per un breve ma struggente monologo portato a casa dall’ineffabile Héctor Elizondo.
E’ una di quelle sequenze in cui senti l’impalcatura di tutta una Hollywood, quella interamente incentrata sul “mestiere dei sentimenti”, che davvero non vedi più da nessuna parte se non in alcune vertigini di prodotti come Girls, e forse potremmo leggere la magnifica sesta stagione della creatura seriale di Lena Dunham e Judd Apatow sul serio come un percorso di avvicinamento sempre più prossimo tra almeno tre generazioni diverse di autori di “commedia rosa”: probabilmente la finale del torneo di stand up vinta grazie alla partecipazione involontaria della figlia neonata del comico USA Jack Whitehall si rivela allora la sequenza cruciale al riguardo.

Quello che accomuna queste traiettorie è una percezione del set, della scena, un

Jack-Whitehall-Britt-Robertsonrespiro dei luoghi orientato a far saltare continuamente e definitivamente il confine tra location reale e studio, ripresa in esterno e interno di posa.
E’ un discorso che Marshall porta avanti sin dal prototipo di queste sue produzioni corali da festività da confezione di cioccolatini, e se è vero che Mother’s day non “gira” come l’episodio di San Valentino o Capodanno a New York, allo stesso tempo è indubbio che quando funziona il gioco è ancora capace di far sprigionare dei cortocircuiti alla macchina dai quali il cinema è libero di sgorgare, per inondare tutti i set e trasformarli in luoghi magici, sospesi, intimi e irreali: la grandezza di Garry Marshall è da sempre tutta qui.
E allora con che lucidità il pub si ri-addobba da cappella per la celebrazione di un matrimonio, e quella stessa proposta viene annunciata attraverso la telecamera di uno studio televisivo all’interno di un programma registrato sotto i riflettori di una scenografia palesemente pacchiana (quelle stesse quinte che dovranno non a caso essere rivoluzionate dall’interior designer Jennifer Aniston…) .

Marshall annulla qualunque distanza tra i fondali come quelli che vediamo dai finestrini del camper dei genitori di Kate Hudson, e il “cielo reale” sul cimitero dei veterani di guerra, le chiamate via skype tra suocere e le chiacchiere tra amiche in palestra durante le lezioni di pilates. Così facendo svela l’equilibrio nascosto del film, tutto giocato sul ribaltare i pesi tra verità e menzogna, confessione mascherata da innocua bugia, quelle prese di coscienza che arrivano in maniera rocambolesca quando smettiamo di mentire prima di tutto a noi stessi: e l’immagine più forte diventa davvero quel modellino di scenografia per la trasmissione di Julia Roberts che il personaggio di Jennifer Aniston recupera dal cestino dei rifiuti, tutto stropicciato e distrutto da non stare praticamente più in piedi, talmente impresentabile da raccontare ogni emozione profonda che si agita in verità nel cuore della madre.

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