SPECIALE THE COUNSELOR – No hay camino

the counselor

Ridley Scott è l'ultimo dottor Frankenstein, o il moderno Prometeo, per cui la mutilazione è l'unica necessaria premessa di una possibile genesi. E nella storia a brandelli di McCarthy intravede un'altra strada per un nuovo cinema, magari mostruoso, ma infinitamente più umano di quello fatto secondo le regole del Capitale o dell'Arte

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the counselorIn fondo, i romanzi di Cormac McCarthy, almeno dalla trilogia della frontiera in poi, possono essere letti come racconti di formazione. Ma le traiettorie dei protagonisti non sono mai di crescita. Sono soggette all'inevitabile legge di gravità, cadono a terra, nell'attimo stesso in cui incontrano il caos della materia. Sono tutti, più o meno, percorsi di educazione al disincanto che passano attraverso la scoperta del dolore e della morte. E la svolta è il contatto imprevisto con la violenza e la durezza di una vita che è ben aldilà del nitore adamantino della perfezione. Il disincanto non vuol dire necessariamente disperazione. Ma è uno sguardo finalmente aperto sulle mille infezioni del mondo, macchiato dalle proprie e altrui colpe e dannazioni.

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Il viaggio del counselor, la sua avventura fallimentare nell'oscuro mondo del narcotraffico, ha la chiarezza di un paradigma. L'avvocato vale come esempio, tanto lampante, che non c'è neanche bisogno di assegnargli un nome, identificarlo, dargli uno spessore. Tridimensionale o bidimensionale, fate voi. Il classico protagonista ingenuo, non perché innocente, ma perché abituato a seppellire le proprie colpe nell'illusione di una vita pienamente controllata, sotto le lenzuola candide e splendenti di un amore vero ed esclusivo. "La vita è stare in un letto con te, tutto il resto è solo attesa". Se è l'ipocrisia il suo difetto (da buon avvocato…), ne è lui stesso la vittima, nella misura in cui si ostina a valutare il mondo in termini di perfezione come fosse un diamante. E allora il suo peccato originale, quello che condivide con la donna amata, quello da cui va lavato per volere divino, è l'aver immaginato un mondo liberato dalla punizione e dal dolore. Come se il suo orizzonte fosse ancor quietamente rintanato nei confini del village di Shyamalan. Eppure l'avvertimento era arrivato, "che strano mondo" aveva sentenziato la perversa Malika all'innocente Laura. Il dolore ti trova dappertutto. E di fronte a questa realtà, poco conta anche l'atteggiarsi a predatori.

 

the counselorOra, quel che preme a McCarthy è raccontare questo battesimo del fuoco. Il come, quando, perché si arrivi al punto diviene francamente irrilevante. Per questo l'azione cede il passo alle spiegazioni, ai dialoghi "illuminanti", alle pause di riflessione. Per questo un lungo discorso sul grado di purezza dei diamanti prende il posto di una tortura, delle immagini negate di uno snuff movie qualsiasi (che ha senso, ripetiamo, solo grazie e in relazione allo spettatore). È una pratica della digressione, che se in letteratura ha radici antichissime, al cinema fa sempre paura, soprattutto al cinema americano. A meno che non si voglia far Cimino (e viene da pensare che quello di Cimino è lo sguardo più vicino alla scrittura di McCarthy, o meglio che McCarthy è il più ciminiano degli scrittori contemporanei)…

La digressione fa paura perché è sostanzialmente antieconomica e contravviene alla sacra indifferenza dello spettacolo, che è sempre qualcosa "che sale", come diceva Truffaut. Si vede che McCarthy non ha mai letto un buon manuale di sceneggiatura, si insinua da più parti, ora denigrando, ora tirando un sospiro di sollievo. Magari ha cominciato, ma lo ha buttato via alla prima pagina, per rimanere fedele a un'altra idea di racconto. Idea che si compie alla perfezione nei versi di Machado puntualmente citati, "Caminante, no hay camino, se hace camino al andar". La storia non ha altra direzione se non quella che si svela nel suo farsi, incerta eppur non sconosciuta, in ogni caso ostinatamente opposta all'applicazione meccanica di regole sicure (è un caso che l'avvocato, "l'uomo di legge", sia condannato al fallimento?).

 

prometheusMa questo procedere a tentoni, tra i punti morti del plot, cosa c'entra con Ridley Scott "il pubblicitario"? Tutto, forse. Perché l'andamento si adatta alla perfezione a quell'ossessione del fuoricampo che, oggi più che mai, sembra dominare il suo cinema. Che è sempre stato, per altro, fatto di tagli, sin dalle sciabolate fendenti (nel corpo e nella Storia) de I duellanti. Tagli di luci e ombre, come si è detto altrove, ellissi del racconto, evoluzioni innaturali del montaggio (quello "a cazzo" di Scalia, come direbbe qualcuno), incongruenze della storia e della leggenda, teste mozzate, occhi cavati, incisioni praticate nella superficie dell'immaginario e nella carne. Fino al supremo, oltraggioso aborto cesareo di Prometheus.

Ecco, Ridley Scott, pur tenendosi ben nascosto dietro la facciata commerciale, si conferma come uno dei registi più ossessivamente innovativi del cinema degli ultimi tre decenni. È davvero l'ultimo dottor Frankenstein, o il moderno Prometeo, per cui la mutilazione è l'unica necessaria premessa di una possibile genesi. E nella storia a brandelli di McCarthy intravede un'altra strada per un nuovo cinema, magari mostruoso, ma infinitamente più umano di quello fatto secondo le regole prestabilite del Capitale o dell'Arte.

Che poi tocchi proprio a The Counselor, con la sua lentezza e la sua andatura inceppata, celebrare la memoria del fratello Tony Scott, il regista più "veloce", è solo una fantastico segno del caso. Ma questa è tutta un'altra storia. Un altro taglio "privato". Il dolore ti viene a cercare ovunque.

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