SPECIALE TRANSFORMERS 4 – Angelus Novus

transformers 4

Bay crea l’ennesima grande esperienza percettiva tutta immersa nel landscape contemporaneo, ma svela i suoi referenti illuminando improvvise tracce di passato nell’informe del suo cinema in tempesta. Quanto più transformium immettiamo nel nostro privato orizzonte esperienziale, tanto più bisogno c’è di un'immagine che guardi per un attimo all'indietro, come l’angelus novus. O come Optimus Prime…

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L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.” – Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia.

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Nella tempesta che chiamiamo progresso, quella che stiamo vivendo, abbiamo il dovere di isolare uno sguardo soggettivo oltre le macerie su macerie che inevitabilmente produce. È una tempesta il cinema di Michael Bay. Una tempesta che scompagina il visibile con tonitruanti acrobazie dell’immagine, celando però una preziosa anima da vecchio artigiano del cinema. Age of extinction: in questo quarto episodio Bay scopre definitivamente le sue carte, svela i suoi amori più intimi, un attimo prima che la tempesta lasci il passo all’era dell’estinzione. Ecco: è ancora qui che risiede tutto il fascino di questo cinema, in quella naiveté (in)consapevole che accompagna e nutre i giocattoloni da centinaia di milioni di dollari, quell'anima fanciulla attratta solo da luce-e-movimento – di per sè un’origine – che segna lo scarto filosofico più marcato con il cinema sempre più “adulto” di questi anni, intriso di blindate riflessioni sui massimi sistemi e inception labirintici della mente.

Questo è il tempo della tempesta, dice invece Bay. Di una pura attrazione meliesiana che sfida la percezione, traducendosi in rinnovato investimento sulle forze e sulle potenze delle immagini. L’immateriale transformium isolato dallo scienziato Stanley Tucci è il cinema di oggi, manco a dirlo, quello creato in laboratorio pixel-dopo-pixel, manco a dirlo, ma che riesce ancora a isolare un’esperienza audiovisiva privata, selvaggia e umanissima. Come? Abbracciando il futuro, certo, ma con lo sguardo rivolto all’indietro: Mark Walhberg s’imbatte in una sala vuota e diroccata, “il cinema era così” ci dice, manco fossimo in The Canyons. “Qui ho dato il primo bacio”, ricorda, manco fossimo in Only Lovers Left Alive. Ed è proprio dietro quello schermo bianco ormai annerito dalla polvere che si nasconde la nostra immagine preferita di bambini, Optimus Prime, l’eroe ormai vecchio e arrugginito. Disattivato da(l) tempo. Inutile proseguire con la metafora. Non ce n’è bisogno. Il divertimento di quel cinema si “riattiva” e ci travolge: gli Autobot assurgono pian piano al rango di reliquie, motori sacri (si parla apertamente di anima) per nulla lontani dal discorso sul “macchinico sublime” dell’ultimo grandissimo Carax. Motori sacri che diventano reietti del sistema, scacciati dall’umanità e diventati losers da western classico, memoria e archetipi crudi come fossimo nei film dei maestri Aldrich, Peckinpah o Fuller. Perché questi reietti che vogliono sopravvivere al di fuori della sala abbandonata e dello schermo impolverato si rifugiano nella Momument Valley, l’immagine per eccellenza del cinema americano: tornano a casa librandosi senza gravità nello spazio del cinema, oltre le macerie su macerie della storia, per riappropriarsi di un’anima. Per ricordare a noi spettatori smemorati in un mondo colmo di memorie artificiali, che il cuore di un’immagine non risiede mai nelle sue potenzialità (qui anche sin troppo) esibite. Divertente e commovente vedere questo mucchio selvaggio 2.0 tradito dagli uomini (stiamo tradendo il cinema?) che cerca riscatto solo opponendo uno sguardo etico sui fatti. Mark Wahlberg, l’umano, diventa un umile testimone di tutto questo: deve solo guardare e ricordare.

Michael Bay, pertanto, vince la sua sfida prendendosi amabilmente in giro (il riuso di scarti narrativi, praticamente lo stesso plot di Armageddon, è un amabile memoria cormaniana), correndo fiducioso in avanti, ma intento a trovare preziose tracce di passato nell’informe delle sue inquadrature in tempesta. E la tappa successiva non poteva che essere Hong Kong, l’altra faccia del mondo. Dove l’inquadratura smarrisce l’inglobante del deserto e degli abbacinanti action painting, per ri-trovare la geometria degli spazi e del montaggio proprio come in Ringo Lam o Tsui Hark. Lo sguardo non si perde più nell’orizzontalità del deserto ma viene sfidato nella verticalità della metropoli del futuro, che fa da palcoscenico per la sopravvivenza dell’alieno, dell’altro-da-noi, messo in pericolo dalla stessa umanità.

Insomma: Bay crea l’ennesima grande esperienza sensoriale tutta immersa nel landscape del nuovo millennio, ma svela apertamente i suoi referenti pagando anche dazio al mentore/produttore Steven Spielberg (come non vedere nell’improvviso risorgere dei Dinobot un omaggio a Jurassic Park?). Perché quanto più transformium immettiamo nel nostro orizzonte esperienziale, tanto più bisogno c’è di una immagine che guardi per un solo attimo al passato, come l’angelus novus di Paul Klee, come l'angelo della storia ri-dipinto da Benjamin. O come Optimus Prime nel finale di questo film. Se ne va il nostro giocattolo preferito. Lascia tutti e vola via verso il futuro, oltre la Terra, oltre l’immagine terrestre che non riesce più a contenerlo come nota giustamente Sergio Sozzo. Ma il suo sguardo è ancora idealmente rivolto all'indietro, alle proprie origini, cercando disperatamente un creatore: esattamente come l’Oz di Raimi o le Limousine di Carax, i vampiri di Jarmusch o il Prometheus di Scott. No: per fortuna non è ancora arrivata l’era dell’estinzione.

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